Ecclestone story: il concessionario inglese che divenne Mister F1

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Tempo di lettura: 5 minuti
di Francesco Ferrandino
2 Febbraio 2017 - 09:30
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Ecclestone non è più il padrone del Circus. Per una volta, non è affatto abusato usare l’espressione di “svolta epocale”.

Il volto della Formula 1 così come molti di noi la conoscono, nel bene e nel male, è in grandissima parte il prodotto delle sue visioni e del suo lavoro. Amato e odiato, Bernie è comunque un uomo di sport, tanto sfiorare persino il debutto in un Gran Premio titolato: avviene a Monaco nel 1958, quando con una Connaught tenta la qualificazione senza riuscirci.

Sessant’anni fa la F1 era un altro mondo, motori anteriori, caschi a scodella, circuiti dove la sicurezza era un concetto praticamente non contemplato, ma Bernie era già un uomo d’affari: la sua concessionaria d’auto diviene una delle più grandi del Regno Unito. La passione per le corse lo porta a diventare manager di una giovane promessa, Stuart Lewis-Evans, che però muore in seguito alle ferite riportate nel GP del Marocco, gara conclusiva del Mondiale ’58. È uno shock per il giovane Ecclestone, che per i successivi dieci anni si dedica esclusivamente ai suoi affari. Ma il “richiamo della foresta” agonistica è troppo forte: a fine anni ’60 Bernie Ecclestone gestisce la carriera di Jochen Rindt, il fortissimo pilota austriaco che nel 1970 sembra destinato alla consacrazione con la Lotus. Purtroppo, anche stavolta Bernie deve sopportare l’atroce perdita del suo pilota, scomparso a Monza mentre era lanciato verso quel titolo che comunque nessuno, nemmeno la morte, gli avrebbe tolto.

Stavolta però Ecclestone non lascia il campo, ma rilancia: tempo un anno e acquista il team Brabham. Proprio nella prima metà degli anni ’70 Bernie comprende prima di tutti che la F1 ha un potenziale commerciale e mediatico enorme, a patto di eliminare quelle regole che lui vede ormai anacronistiche: ogni corsa aveva il suo regolamento, i numeri di gara variavano di GP in GP, le squadre negoziavano individualmente gli ingaggi con gli organizzatori di ciascun evento. Insomma, una specie di Far West pronto ad accogliere i cercatori d’oro che sapessero far valere per primi i propri diritti. Bernie crea la FOCA (Formula one constructors association), l’associazione delle squadre, instaurando una specie di “compagnia di giro”, un pacchetto completo da offrire ai vari organizzatori in giro per il mondo, e guai a chi non si adegua: il GP del Canada 1975 viene annullato perché inizialmente i promotori non vogliono piegarsi alle richieste della FOCA.

Intanto esplode la F1 come fenomeno televisivo: i relativi diritti di trasmissione diventano una nuova, enorme, ricca torta da spartirsi della quale, manco a dirlo, Ecclestone decide le fette. “Occhiali da sole, camicia finissima di batista, capelli alla paggetto, Bernie è l’uomo che sa imporsi con doti che non risaltano immediatamente. Eppure era diventato il perno della situazione”, così l’ha descritto il compianto Clay Regazzoni, aggiungendo: “Aveva saputo creare un organismo ben congegnato, ne aveva ricavato dei soldi e con i soldi aveva tappato la bocca a tutti”.

Leggendari i suoi scontri con il presidente FIA Jean Marie Balestre, che portano la F1 sull’orlo della scissione agli inizi degli anni ’80 quando alcune gare, come il GP di Spagna ’80 o il GP del Sudafrica ’81, si vidono annullare la validità “mondiale” a causa della guerra tecnico-regolamentare, ma soprattutto economica, in atto tra i team inglesi capitanati da Ecclestone e i “legalisti” fedeli alla FIA.

Ecclestone vince anche due campionati del mondo col suo pilota Nelson Piquet, iridato nel 1981 e poi ancora nel 1983, quando la Brabham monta la strapotente turbo BMW. Ma negli anni successivi il suo ruolo di padrone dell’intero Circus porta Bernie a dedicare sempre meno attenzioni al team, che venderà nel 1988. Bernie diventa così a tempo pieno il manager di una specialità sempre più televisiva. Dopo le tragedie di Imola ’94 in diretta tv, la F1 si dirige progressivamente su piste sempre più asettiche, ultrasicure, abbandonando molti di quei circuiti dove si è costruita la leggenda dei Gran Premi.

Ogni Paese emergente (leggi: pronto a scucire denari) diventa un possibile candidato ad ospitare le gare di una F1 in grado di monopolizzare l’attenzione fino a cancellare mediaticamente tutte le altre discipline motoristiche. Una F1 sempre più malata di gigantismo, sempre più lontana dal pubblico, dove i circuiti vengono spesso disegnati tenendo conto soltanto della telegenicità, non certo della selettività di pilotaggio. Questo fin quando l’arrivo (o il ritorno, a seconda dei casi) delle Grandi Case automobilistiche inizia a togliere impercettibilmente ma progressivamente potere a Bernie, che dopo 45 anni al vertice passa definitivamente la mano al colosso delle comunicazioni Liberty Media.

Un giudizio complessivo sulla sua opera, che giocoforza esula da queste poche righe, sarebbe comunque ambivalente: di certo, la notorietà che la Formula 1 ha raggiunto a partire dagli anni ’70 è merito di Ecclestone, ma moltissime delle storture e delle deformazioni che questa disciplina ha dovuto subire negli ultimi decenni sono anch’esse il prodotto di una popolarità di stampo “televisivo”, con tutto quel che ne consegue. Ecclestone esce di scena, a quasi novant’anni, dopo un’avventura che lo ha portato a confrontarsi con personaggi leggendari, come Enzo Ferrari, Colin Chapman, Ken Tyrrell, Frank Williams, Ron Dennis, per poi destreggiarsi nel moderno mondo delle grandi Corporations multinazionali, i cui manager spesso si stupivano del fatto che un solo uomo potesse occuparsi degli innumerevoli aspetti di un business immenso come la Formula 1.

Ma evidentemente non conoscevano uno dei motti di Bernie: «Quelli pensano di tenermi per le palle, ma le loro mani non sono abbastanza grandi per contenerle».

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