Persa, rassegnata, l’ombra di se stessa: dov’è finita la vera Ferrari?

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Tempo di lettura: 3 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
24 Giugno 2019 - 01:13
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C’era una volta la Ferrari che minacciava di lasciare la Formula 1 a colpi di progetti come la 637, della serie “se non vi svegliate ce ne andiamo negli States”.

C’era una volta la Ferrari dalla forza politica necessaria a farsi togliere una squalifica per andarsi a giocare il titolo nel 1999, quella che vinceva la battaglia per le gomme nel 2003 e chissà quante altre. C’era: non c’è più.

Dall’inizio dell’anno, dopo l’uscita di Maurizio Arrivabene e la perdita di Sergio Marchionne, il peso di tutta la Scuderia grava sulle spalle di Mattia Binotto: il quale, contemporaneamente, svolge tutti i ruoli più importanti di fronte alle telecamere. Presidente, AD, Ufficio Stampa, Direttore Tecnico e Team Principal. È lui a metterci sempre la faccia, è lui a spiegare anche quello che non dovrebbe, è lui il volto sul quale ricade l’immagine di una Ferrari lontana parente di se stessa.

Il peso politico della Rossa all’interno della Formula 1 è ai minimi da anni. Sembra trasparente, quasi assente, tanto che gli altri vorrebbero pure levarle il famoso diritto di veto, simbolo di una forza che non c’è ormai più. Il Cavallino dei tempi di Todt, Brawn e Montezemolo avrebbe sollevato un polverone inenarrabile dopo quanto successo in Canada. Avrebbe alzato la voce – davvero – si sarebbe difeso con le unghie e con i denti, avrebbe sfoderato qualsiasi arma pur di ribaltare la decisione di Montréal o quanto meno per provarci in modo serio, concreto, incazzato come ci si aspetta dal team più vincente del Circus.

Dal Paul Ricard, invece, la Ferrari ne esce a brandelli, con le ossa rotte. Viene presa in giro ripetutamente: da Toto Wolff, che ogni volta si aspetta una Rossa in forma; da Hamilton, che fa quello che vuole in pista e se la ride deliberatamente nelle dichiarazioni: “Quando ho visto che come prova avevano portato l’analisi di Chandhok…”. Già, perché il verdetto sul ricorso è stato ancora più svilente della penalità stessa, in sintesi “Ci avete portato roba già vista, non fateci perdere tempo”. Dovevano essere prove schiaccianti, o almeno Laurent Mekies – ex FIA, ricordiamolo – così aveva annunciato. Non avevamo capito per chi, evidentemente.

Dopo la prima legnata tra le due libere sono arrivate quelle in qualifica e gara. Con un presidente che, questa volta, non ha potuto elogiare il giro più veloce di Vettel – dicendo che la Mercedes è più forte e fortunata – perché non c’era e che, in queste due settimane, non ha proferito parola su quanto successo in Canada. Scena muta. Con un AD che si è limitato ad un “Siamo delusi, rispettiamo i commissari, vedremo”. Ero più credibile io da rappresentante di classe alle superiori: quindici anni fa la Mercedes avrebbe trovato i truck, le monoposto ed anche la Safety Car sui mattoni. Ora la Ferrari “Ciapa su e porta a cà”, per dirla in milanese. Prendi a porta a casa.

Che poi, parliamo delle condizioni nelle quali il giro più veloce è stato conquistato al Paul Ricard: per soli 24 millesimi, con gomme soft fresche di due giri contro quattro hard da trenta giri straziate dal blistering della Mercedes. Lodare un GPV stavolta sarebbe stata una tafazzata cosmica ancor più di Baku. Lo è comunque, in realtà. Perchè rappresenta in pieno i valori attuali tra il team che sta dominando a suo piacimento dal 2014 e la prima delle inseguitrici, che ora di metà stagione rischia il doppiaggio nel Costruttori.

Ho imparato col tempo che in tutte le realtà, dalla più piccola alla più grande, ciò che importa è l’input che arriva dall’alto. Se non è quello giusto non si va avanti. Se poi manca, tanti saluti.

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