Non complichiamoci la vita

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di Samuele Prosino
29 Marzo 2018 - 11:00
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Come ogni anno, da cinque anni almeno, vado a vedere il Gran Premio d’Australia al bar.

Sveglia presto come ho sempre fatto da quando seguo la Formula 1, quattro passi ed eccomi a ordinare una cioccolata calda e una brioche, in attesa che il Circus apra il sipario.

Quest’anno, a differenza del solito, sono stato piacevolmente accompagnato nella visione da ben cinque persone. Non amici, né conoscenti; ma non è un problema. L’unica cosa che sapevo è che erano tutti over 50 e uno di loro era ampiamente over 75.

Mi sono aspettato immediatamente grandi lamentele, come si usa di solito fare al bar quando qualcosa a livello sportivo va male. Mi aspettavo anche una certa difficoltà nel capire la corsa, visto che la grafica 2018 si è ristretta e alcune regole si sono complicate. E soprattutto mi aspettavo grandi critiche all’halo.

Niente di tutto questo. I cinque moschettieri della mattinata hanno capito alla perfezione tutte le fasi della corsa. La virtual safety car? La cosa più facile del mondo. Il sorpasso di Vettel? Non c’è stato bisogno di spiegazioni, era così evidente! Il fatto che la Mercedes avrebbe probabilmente vinto senza il manifestarsi di una serie di eventi? No problem. In questo caso nemmeno il loro palese tifo per la Ferrari ha macchiato la loro analisi.

Parliamo dell’halo? Bèh, c’è da dire questo: personalmente, io non mi sono accorto di differenze particolari. Per me l’estetica era già svanita dopo un giro: troppo impegnato a seguire le fasi della corsa davanti, in mezzo e in fondo al gruppo per dare importanza a questo dettaglio. La stessa cosa è valsa per i miei “ospiti” di giornata, perché nessuno ha mai parlato di halo, salvo prima della gara. E la frase che ho sentito è stata: “ho sentito dire che resiste a urti fortissimi. Chissà quanti piloti si sarebbero salvati quando ero piccolo io, magari anche Senna”. Ho pensato: “Ehi, piantala di stupirmi!”

La gara è andata avanti liscia. Nonostante la mancanza di sorpassi e una preoccupante difficoltà dei piloti a intrattenerci con duelli rusticani, nessuno è andato via dallo schermo e nessuno si è lamentato. Salvo uno di loro, che appena i distacchi tra i piloti andavano oltre il secondo diceva: “bòn, non lo prende più, adesso scappa”.

Tornando a casa, ho riflettuto su questo gruppo di persone e ho fortificato alcune mie convinzioni. La prima, è che la Formula 1 non è così complessa dal punto di vista dello spettatore televisivo comune: il prodotto da vendere è la corsa, se la corsa ha dei fili conduttori funziona, se invece è una processione nella quale ogni pilota è distanziato dieci secondi dall’altro non funziona. La seconda è che l’estetica è per i puristi; cosa conta, nuovamente? La gara, il racconto. La terza è che l’unica strada per convincere queste persone a rimanere e a richiamarne altre è ancora più semplicità. Per farlo, però, bisogna uscire dal paradigma della “categoria dove impera la tecnologia”, o della “categoria nella quale si testano novità tecniche”.

Concludo questo racconto riservando due parole a Gianfranco Mazzoni. A circa metà gara uno dei cinque ha esclamato: “però è davvero un peccato che la Rai non faccia più vedere la F1, mi piacerebbe sapere perché lo hanno deciso”. Io ho cercato di spiegare le varie ragioni per cui c’è stato l’abbandono (le condizioni contrattuali, le scelte degli organizzatori, la strategia editoriale) e poi, più o meno in coro, i presenti hanno detto: “Manca molto il commentatore della Rai, sapeva raccontare la gara con garbo”. La realtà, ancora una volta, dimostra di essere molto diversa dalla rappresentazione del mondo che si legge sui social.

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