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di Gabriele Dri @NascarLiveITA
22 Novembre 2018 - 10:00
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Esattamente vent’anni fa si è disputata l’ultima gara di esibizione della Cup Series. La meta prescelta fu per il terzo anno consecutivo il Giappone, ma dopo due anni a Suzuka ci si spostò sul nuovo ovale di Motegi, l’unico presente nella terra del Sol Levante. Era l’epoca in cui cominciavano a circolare tanti soldi nello sport e anche un periodo in cui la Nascar aveva la necessità di allargare i suoi orizzonti, un percorso iniziato esattamente 10 anni prima.

Down Under

28 febbraio 1988. Una data storica per la Nascar, dato che per la prima volta si disputò una gara, seppur solo per lo show, al di fuori del continente americano. Bisogna specificare questo perché nella storia della Cup Series, sepolte dalla polvere, ci sono due gare disputate in Canada, una nel 1952 allo Stamford Park di Niagara Falls, Ontario (tale Buddy Shuman, all’unica vittoria in carriera, batte addirittura “Fabulous” Herb Thomas, ovvero il pilota su cui è stato modellato Doc Hudson nel film Cars) e una nel 1958 al Canadian Exposition Stadium di Toronto con vittoria di Lee Petty (una delle 54 ottenute in carriera sulla strada verso il secondo dei tre titoli), ma soprattutto passata alla storia per il debutto di suo figlio Richard in Cup Series. E’ solo la prima di 1184 gare (record) che lo vedranno conquistare 200 vittorie e 7 campionati (altri due record).

Tornando all’Australia, l’iniziativa di portare le stock car aldilà dell’Oceano Pacifico fu di Bob Jane, pilota, proprietario e promoter storico dell’automobilismo australiano. Venuto a mancare di recente, la sua storia merita di essere approfondita, ma noi ci concentriamo su quanto fatto a Calder Park. Al circuito stradale costruito nel 1962 ci aggiunse un ovale che nei progetti era una riproduzione in scala ridotta di quello di Charlotte. Nacque così il Thunderdome, lungo 1.119 miglia e dalla forma leggermente più allungata del modello americano e che creò non pochi problemi al debutto. La particolarità è che il Thunderdome doveva essere anche perfettamente simmetrico, dato che ci avrebbe dovuto correre la Cup Series, volante a sinistra e senso antiorario di percorrenza, ma anche le vetture australiane, che seguono ancora le regole di Sua Maestà la Regina Elisabetta e dunque tutto è l’opposto

Due settimane la Daytona500 vinta da Bobby Allison davanti al figlio Davey, e una dopo la gara di Richmond, vinta da Neil Bonnett, si presentarono al via 32 vetture. Chiaramente non tutti i team hanno potuto affrontare la lunga trasferta ma comunque qualche nome importante c’è. Allison, Bonnett, Marcis, i giovani Kyle Petty e Michael Waltrip, McGriff, Chad Little e tanti piloti della attuale K&N Series si uniscono a otto piloti locali dell’ATCC (il campionato turismo australiano ora denominato Supercars), fra cui Dick Johnson, Jim Richards e Allan Grice. Dopo 500km ricchi di incidenti a vincere è Neil Bonnett davanti allo stesso Bobby Allison.

Dopo questa gara one-off in Australia si disputarono altre tre gare, anche se non sotto l’egida della Nascar seppur corse con le stesse vetture, nel dicembre 1988, 1990 e 1994 e vinte rispettivamente da Morgan Shepherd, Terry Labonte e dal locale Max Dumesny davanti al più quotato Jimmy Hensley. Su iniziativa di Bob Jane nacque anche una serie nazionale, chiamata AUSCAR, che durò per 10 anni ma poi chiuse di fronte alla rinnovata popolarità del campionato turismo chiamato ora Supercars. Ed è proprio dalle Supercars, dopo due titoli vinti, Marcos Ambrose decise di attraversare l’oceano per tentare l’avventura in Nascar. Diventato il re dei circuiti stradali, in sette stagioni conquistò sette vittorie, due in Cup Series e cinque in Xfinity, ripartite in cinque al Watkins Glen e una a Montréal, Con questo bottino è diventato il pilota non americano più vincente nella storia della Nascar.

Big in Japan

Otto anni dopo l’avventura in Australia, la seconda tappa ufficiale della Nascar fu il Giappone. Ma riguardo la prima parte di questo capitolo preferisco far parlare il breve documentario realizzato dalla Fox.

Dopo le due gare di esibizione disputate sul circuito corto di Suzuka nel 1996 e 1997 (con qualifiche disputate sotto il diluvio e la pole andò a Mark Martin), vinte rispettivamente da Rusty Wallace e Mike Skinner, nel 1998 ci si trasferì sul nuovo ovale di Motegi, inaugurato pochi mesi prima dalla CART in una gara vinta da Adrian Fernandez. Sull’ovale asimmetrico da 1.549 miglia, modellato dagli ingegneri della Honda su Darlington, anche se realizzato con curve più piatte, si presentarono 31 vetture schierate da team provenienti da tutte le serie della Nascar e ci sono pure quattro piloti giapponesi, di cui il più famoso è Keiichi Tsuchiya, secondo l’anno successivo alla 24 ore di Le Mans a bordo della Toyota che cercava ancora il suo primo successo nella classica francese.

A differenza della gara australiana, qui a Motegi i nomi di peso ci sono, e pure tanti. C’è il bicampione in carica Jeff Gordon, ci sono Darrell Waltrip, Rusty Wallace e Bill Elliott, poi Craven, Mayfield, Skinner, Jeff Burton, Sterling Marlin, Ron Hornaday Jr., bicampione anch’egli ma nella Truck Series, e infine gli Earnhardt. Sì, al plurale perché oltre a Dale c’è pure Dale Jr., alla prima gara, seppur non ufficiale, in Cup Series pochi giorni dopo essersi laureato campione della Busch (ora Xfinity) Series.

In una gara che vede all’inizio la consueta “selezione naturale” dei piloti giapponesi (uno dei quali perdendo il controllo colpisce Jeff Gordon) e dopo che in prima posizione si sono alternati Mayfield, che ha pure conquistato la pole a oltre 158 mi/h di media, Gordon e Jeff Burton, dal giro 140 sui 201 previsti (500km in programma) a prendere la testa della gara, grazie anche ad una strategia audace, e mantenerla fino alla fine è Mike Skinner, compagno di squadra di Dale Sr. e vincitore anche l’anno precedente a Suzuka e che quindi avrà per sempre il non invidiabile palmarés di 286 gare in Cup Series e zero vittorie e allo stesso tempo tre gare di esibizione e ben due successi. Chi si fa notare però sono i giovani piloti come Elliott Sadler, sulla vettura del Wood Brothers con cui debutterà in Cup Series l’anno successivo, l’allora quasi sconosciuto Brendan Gaughan, nonostante la sua giornata termini letteralmente in fiamme, e lo stesso Dale Jr. il quale scherza col fuoco, ovvero suo padre “The Intimidator”, in una occasione è pure secondo e alla fine al debutto assoluto è sesto (e Dale Sr. nono).

Tra i piloti presenti quel giorno non c’era Shigeaki Hattori. Allora il 25enne si dedicava alle monoposto e il mese precedente aveva concluso la terza stagione in IndyLights con un 14esimo posto finale, ma con ben due vittorie a Homestead e al Gateway Raceway. Dopo qualche stagione fra Cart e IndyCar senza risultati di rilievo passò nel 2004 alla Truck Series grazie allo sponsor Aisin (azienda del gruppo Toyota). Anche qui nessun buon piazzamento e così decise di fondare un suo team. Dopo aver saltato fra Xfinity e Truck, Hattori optò per i pick-up, part-time nel 2016 e poi a tempo pieno. Dopo aver risollevato la carriera di Ryan Truex, fratello minore di Martin, nel 2018 ha preso in squadra Brett Moffitt, anch’egli in cerca di rivincita. A fine anno sono arrivate sei vittorie ed il campionato, vinto proprio a Homestead. Ovviamente il Truck era Toyota e lo sponsor per l’ultima gara (nonostante mille difficoltà nel trovarne durante la stagione) era Aisin.

¡Viva México!

Dopo 45 anni di gare ufficiali solo negli USA, la Nascar tornò a varcare i confini nazionali nel 2005, quando la attuale Xfinity Series iniziò a far tappa in Messico all’Autodromo Hermanos Rodriguez. Le edizioni disputate furono purtroppo solo quattro (e la tappa nel calendario fu sostituita da una seconda gara in Iowa), ma sia i vincitori, sia il pubblico, sia i piloti locali che vi corsero furono di alto livello. Nell’albo d’oro troviamo Martin Truex Jr., sulla strada verso il secondo titolo consecutivo nella categoria, Denny Hamlin, Juan Pablo Montoya, al primo successo in Nascar, e Kyle Busch. Ma il seme gettato non è andato sprecato. Nel 2004 era già nata una serie messicana dedicata alle stock car, poi dal 2007 ufficialmente riconosciuta dalla Nascar. Due anni dopo ci debuttò un 17enne di Monterrey che la stagione successiva divenne “Rookie of the Year”. Non ha mai vinto il titolo (una volta secondo e una terzo), ma nel frattempo si era fatto notare anche negli USA conquistando successi nella K&N Series. Poi l’approdo al Joe Gibbs Racing e l’apoteosi col titolo vinto nel 2016 nella Xfinity Series, quando divenne il primo non americano a conquistare un campionato. Il suo nome ovviamente è Daniel Suárez.  

O Canada

Quando l’avventura messicana si stava per concludere, nel frattempo era iniziata quella canadese, sempre nella Xfinity Series. Nel mese di agosto del 2007 la Nascar sbarcò al Circuito Gilles Villeneuve di Montréal per la prima delle sei edizioni disputate e a vincere fu Kevin Harvick. A passare alla storia fu però l’edizione dell’anno successivo, disputata sotto una forte pioggia. Quella gara fu la prima nella storia della Nascar in cui vennero utilizzate gomme da pioggia e tergicristalli e a vincere fu il beniamino di casa Ron Fellows, il quale concluse così una carriera decennale contraddistinta da sei vittorie fra Xfinity e Truck Series. Seguirono poi le vittorie di Carl Edwards, Boris Said (in volata su Max Papis), Marcos Ambrose e Justin Allgaier. Dopo l’addio alla F1 Jacques Villeneuve ebbe altre chance di conquistare una sospirata vittoria sul circuito intitolato a suo padre, ma anche con le stock car il desiderio non si avverò (tre top5 in cinque tentativi).

Lasciata Montréal, dato che il promoter voleva la Cup Series altrimenti non ci sarebbero stati guadagni, la Xfinity Series andò a Mid-Ohio, ma ad arrivare in Canada, per la precisione a Mosport, fu la Truck Series. E di spettacolo ce ne è stato ogni anno, dato che in quasi tutte le edizioni la disputa si è risolta di forza all’ultimo giro, se non all’ultima curva. E anche qui l’albo d’oro è di quelli importanti: Chase Elliott, Ryan Blaney, Erik Jones, John Hunter Nemechek, Austin Cindric e Justin Haley. 

Detto che anche in Canada dal 2007 la Nascar ha una sua serie ufficiale, erede della vecchia CASCAR, che ha reso noti piloti come DJ Kennington e Alex Labbé, ad oggi la tappa di Mosport è l’unica trasferta di tutta la Nascar. 

Il futuro

Dopo anni di silenzio la Nascar sta tornando a guardare oltre oceano. Purtroppo non è l’Atlantico, anche se l’ EURONascar è in forte ascesa ma ha ancora la connotazione di un comune campionato turismo, tuttavia di nuovo il Pacifico. Due le possibili destinazioni, una la Cina, un mercato automobilistico in forte ascesa e che è stato visitato nell’ottobre dell’anno scorso dal vicepresidente della Nascar Steve O’Donnell in occasione della tappa a Ningbo del WTCC. I costruttori cinesi non mancano e qualcuno come Geely sta facendo i primi investimenti nel mercato americano, ma questa strada sembra ancora lunga da percorrere in entrambe le direzioni.

Nelle ultime settimane la tappa più probabile è tornata dunque ad essere l’Australia e tutto nasce proprio dal team che Dick Johnson schiera nel campionato Supercars e che da qualche stagione è di proprietà anche di Roger Penske. Prima della gara di Surfers Paradise i due piloti Scott McLaughlin e Fabian Coulthard hanno potuto guidare la vettura che Joey Logano ha portato alla vittoria nella All-Star Race del 2016. Il dialogo è solo all’inizio, e anche qui è stata fondamentale una prima visita di Steve O’Donnell nel mese di agosto per creare il contatto, e non è ancora chiaro cosa ne nascerà. E’ noto però il fatto che il circuito di Surfers Paradise vuole essere di nuovo il punto di contatto tra Australia e USA così come lo fu fra il 1991 e il 2008 ospitando una gara della CART.

Rispetto a 20 anni fa però c’è un grosso problema: allora le gare nel calendario erano “solo” 33, nel 1988 addirittura 29, oggi invece sono 36 e lo saranno almeno fino al 2020. Trovare un buco nel programma senza riempire le tre pause che ci sono durante il campionato è praticamente impossibile. Riuscire ad organizzare un evento all’altezza prima di Daytona o dopo Homestead è altrettanto difficile così come le distanze da colmare. Da considerare anche il fatto che di ovali al di fuori degli Stati Uniti ce ne sono davvero pochi a livello internazionale. In Messico c’è Puebla e una versione ridotta dell’Hermanos Rodriguez, in Brasile Jacarepaguà è stato demolito, in Giappone Motegi ha sofferto gravi danni dopo il terremoto del 2011 e le riparazioni hanno permesso solo un’esibizione di Takuma Sato nel 2017 ma non è adatto alle gare, in Australia il Thunderdome è quasi abbandonato, in Europa il Lausitzring diventerà un circuito solo per test di vetture stradali mentre Rockingham è sulla strada verso la demolizione, quindi di scelte praticabili, short track esclusi, non ce ne sono e si dovrà ricorrere quasi sicuramente ad un circuito stradale.

Dunque al momento non rimane che sognare il fatto di una nuova apertura della Nascar e della sua categoria regina verso altri continenti. Un altro sogno rimane quello di vedere la Nascar disputare una gara su un vero circuito cittadino, dopo l’assaggio fornito in parte dal nuovo roval di Charlotte un paio di mesi fa. E chissà se il circuito di Surfers Paradise non fornirà alla Nascar la classica occasione per prendere due piccioni con una fava.  

Fonti: racing-reference.info; wikipedia.org; supercars.com; youtube.com; sportspromedia.com; foxsports.com

Immagini: reddit.com/r/NASCAR; pinterest.com

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