Le mille peripezie della WCM Harris

Storia
Tempo di lettura: 13 minuti
di Federico Benedusi @federicob95
12 Dicembre 2018 - 12:00
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Il passaggio dalla classe 500cc alla MotoGP, affrontato dal Motomondiale nel 2002, segna l’inizio dell’epoca dei costi spropositati e dei budget faraonici: fino al 2007, con la nascita dei motori da 800cc e i primi segnali della grande crisi economica mondiale, le Case impegnate nella classe regina delle due ruote arrivano ad impiegare ingenti quantità di persone e denaro per sviluppare quelle che tuttora sono le moto più tecnologiche di sempre. Ma la MotoGP per come la intendiamo oggi, almeno nei suoi primi anni, ha proposto anche esperimenti curiosi che talvolta si sono trasformati in vere e proprie avventure.

Il caso più eclatante è quello del team WCM. Squadra britannica, nata nel 1992 sotto la guida di Peter Clifford e Bob MacLean, la World Championship Motorsports è stata uno dei più importanti “satelliti” del marchio Yamaha per un decennio. Dopo cinque stagioni corse con i telai francesi ROC, nel 1997 arriva la grande occasione: dopo tre gare il team Promotor fallisce e le YZR 500 di Luca Cadalora e Troy Corser vengono affidate proprio al team WCM, che ormai è l’unico ad utilizzare ancora le vecchie ROC assieme al team “interno” del telaista transalpino. Clifford e MacLean dispongono anche di un’importante sponsorizzazione da parte della Red Bull e con le 500cc di Iwata si tolgono grandi soddisfazioni grazie a Régis Laconi, vincitore del Gran Premio di Valencia del 1999, e soprattutto a Garry McCoy, che nel 2000 vince tre gare ed è quinto in classifica generale, dando un grande contributo alla conquista di un titolo costruttori che in Yamaha mancava dal 1993. Al termine di un 2002 deludente, in cui il team WCM è l’unico team Yamaha a non ricevere la nuova M1 nemmeno a stagione in corso, Red Bull lascia per sponsorizzare la nuova KTM 125cc e i soldi necessari per il leasing delle M1 viene a mancare.

Di lasciare il Motomondiale, però, Clifford e MacLean non ne vogliono sapere. I mezzi a disposizione sono pochi ma la voglia di esserci è tantissima. Per rivaleggiare con le grandi Case, capeggiate da Honda che nel 2002 aveva portato in pista quel capolavoro della RC211V spinta da un motore V5 da 990cc, i due manager britannici si affidano nientemeno che a quello che negli anni ’90 era il loro più grande avversario, la Harris. Un team che per metà decennio aveva usato telai ROC suona al citofono della Harris, l’altro telaista che aveva costruito moto per la classe 500cc spinte da privatissimi motori Yamaha. Harris accetta e il progetto vede ufficialmente la luce.

La Harris WCM è una bestia strana. Il perché è presto detto: eccezion fatta per qualche modifica nel motore, questa moto altro non è che una Yamaha YZF R1, moto stradale che due anni dopo farà il suo debutto ufficiale nel mondiale Superbike. Secondo i calcoli di Clifford e MacLean, però, queste modifiche sono sufficienti per rientrare nei limiti del regolamento tecnico. I pochi mezzi economici a disposizione impongono anche scelte low cost anche per quanto riguarda i piloti: da una parte Chris Burns, 23enne di Newcastle che nel 2000 si era giocato il titolo europeo della Superstock e nel 2002 aveva vinto due gare da wildcard nella stessa categoria, dall’altra nientemeno che Ralf Waldmann. A convincere “Waldi” sono più che altro i tre buoni risultati ottenuti da wildcard l’anno precedente, nella sua amata 250cc: “L’anno scorso ho realizzato di poter ancora andare forte, confido di poterlo fare e amo tutto ciò. Questo è il motivo principale, non sono i soldi, io amo correre, ho corso in ogni classe dalla 80cc alla 500cc e adesso in MotoGP. So che il mio stile di guida può adattarsi bene alle moto grandi perché non sono un pilota da curvoni veloci, l’ho capito quando ho guidato la 500cc di Kenny Roberts”. Questo è quello che dice Waldmann il giorno del suo annuncio ufficiale, ricordando alla schiera di appassionati delle due ruote che lui ha già guidato la Modenas KR3 e che quindi nulla può spaventarlo davvero. È il 16 gennaio 2003 e mancano due mesi ai test IRTA di Barcellona: non si sa cosa succeda in questo lasso di tempo, sta di fatto che prima dei test in Catalunya Waldmann dà l’addio alla squadra e il grande pubblico non lo vedrà mai in sella alla Harris WCM.

La WCM giunge quindi a Barcellona senza un minimo confronto pregresso con le altre moto, non avendo girato né a Jerez né a Estoril. In sella alla “nuova” moto sale il solo Burns. Al termine dei due giorni di prove, che assegnano anche una fiammante BMW al pilota che ottiene il miglior tempo in una sottospecie di sessione di qualifica (che viene trasmessa anche in diretta TV per la prima volta) alla domenica, Burns è ultimo ma con un dignitosissimo distacco di circa quattro secondi e tre decimi dalla nuovissima Ducati di Loris Capirossi. Il primo riferimento per il britannico è la Kawasaki di Akira Yanagawa, dalla quale dista poco più di un secondo.

Per sostituire Waldmann si fa anche il nome di Alessandro Gramigni, che nel Motomondiale non corre dal 1997, quando ha avuto occasione di sostituire l’infortunato Doriano Romboni sull’Aprilia 500cc (se così si può chiamare) bicilindrica. Il “Gram” però preferisce correre in Superbike, seppur non al 100% delle condizioni fisiche. Alla fine, ad accettare coraggiosamente la sfida del team WCM è David de Gea, terzo in 250cc sotto il diluvio di Assen nel 2001, ma per Suzuka non c’è più tempo e dunque in Giappone va solo Burns.

Un weekend che si potrebbe riassumere unicamente con la tragica morte di uno dei centauri giapponesi più forti di sempre, Daijiro Kato, per la WCM si rivela tragicomico. Nel box britannico vengono portati quattro motori, che in qualche modo passano le verifiche tecniche ma la cui durata è irrisoria: tra venerdì mattina e sabato mattina si rompono tutti per problemi di lubrificazione, così Burns è costretto a guardarsi la gara dai box. Un autentico peccato perché tra una rottura e l’altra, prima che la pioggia rovini le qualifiche del venerdì pomeriggio, Burns mette a segno un 22° crono su 26 moto precedendo (e qui arriva la parte comica della storia) nientemeno che la stratosferica Honda ufficiale #69 guidata da un debuttante Nicky Hayden, il quale invece si attarda a segnare un tempo con la pista asciutta. Nell’unica sessione totalmente col sole, la prima di libere del venerdì, sul rettilineo tra la curva Spoon e la 130R Burns segna un 282,7 km/h allo speed trap, 30 km/h più lento rispetto al fulmine rosso guidato da Capirossi ma più veloce delle Proton KR3 500cc di Nobuatsu Aoki e Jeremy McWilliams.

L’ecatombe di motori vista a Suzuka è la probabile condanna della WCM, che si presenta con due moto in Sudafrica ma viene respinta. Il comunicato rilasciato dalla MotoGP è abbastanza eloquente, la Harris è illegale (testualmente) per due motivi: “1) Non ha un motore di matrice originale poiché la sua concezione, il suo disegno e la maggior parte delle componenti sono Yamaha. L’articolo 2.2.1 del regolamento tecnico dice che una moto a quattro tempi deve avere un motore di progettazione originale; 2) Utilizza componenti fondamentali del motore derivati dalla Yamaha R1, un prodotto di serie venduto in molti esemplari, e l’articolo di cui sopra recita che una moto non deve usare carter, cilindri o teste dei cilindri derivanti dalla produzione di serie”. Dopo il weekend sudafricano, Clifford risponde ufficialmente con una lista piuttosto esaustiva delle componenti originali della sua moto, dalla quale però mancano proprio quelle incriminate, oltre a riferirsi (molto probabilmente) alle unità rese inutilizzabili a Suzuka. La questione viene portata addirittura in appello, il quale però viene naturalmente rigettato costringendo Clifford a restare a casa per qualche settimana. Facendo un salto avanti nel tempo, fa sorridere il fatto che la Harris WCM portata a Welkom non fosse altro che una CRT ante-litteram. Nove anni dopo questo misfatto, la FIM regolarizza l’utilizzo di motori stradali sui prototipi per salvare l’emorragia di moto nella classe regina.

Ma il bello deve ancora venire, perché Clifford decide di entrare di diritto nella leggenda della MotoGP: in attesa che la Harris WCM venga approvata (leggi: avere un numero adeguato di motori “sufficientemente legali” per coprire le ultime gare della stagione), il manager britannico rientra in gioco da Donington con due 500cc, la cui presenza è ancora permessa dal regolamento. La bellezza di questa storia però risiede nell’entità di queste due moto. Clifford infatti decide di affidare a Burns la ROC-Yamaha che sta ferma nel suo garage dal 1997 e ha visto la pista per la prima volta nel 1992; esattamente dieci anni prima del Gran Premio di Gran Bretagna del 2003, quella stessa moto è arrivata sul podio con Niall Mackenzie, al terzo posto. A de Gea viene invece affidato un pezzo meno d’antiquariato ma comunque suggestivo: lo spagnolo sale infatti su una Sabre, moto costruita dall’omonima squadra britannica attorno ad un motore Yamaha e sempre sulla base della ROC, che ha partecipato al mondiale 500cc 2001 con Johan Stigefelt per poi effettuare una comparsata nel Gran Premio di Macao del 2002 con Chris Palmer. Nelle qualifiche di Donington, Burns porta una moto vecchia di 11 anni a meno di un decimo dalla Proton di Aoki e soprattutto a sette decimi dalla Kawasaki ufficialissima di Andrew Pitt. 

Nelle tre gare in cui le due 500cc vengono impiegate, la qualificazione sfugge solo a Burns in Germania ma unicamente a causa di una caduta che complica l’infortunio ad una clavicola già rimediato a Donington, peraltro in un’occasione singolare: nell’affrontare la curva Coppice al primo giro di gara, il vecchio e singhiozzante motore Yamaha dà potenza all’improvviso e lo sventurato britannico viene sbalzato per aria ricadendo male di testa (con il casco che va in frantumi) e di spalla. Il numero più impietoso di questi tre weekend risiede nelle velocità massime raggiunte nelle qualifiche di Brno: sul pur breve rettilineo di partenza, la ROC di Burns arriva a 258,7 km/h mentre la solita Ducati di Capirossi vola a 299,2 km/h. In Portogallo, finalmente, la Harris riceve l’ok dei commissari di gara e la stagione termina con i soliti problemi di affidabilità accompagnati però da prestazioni tutto sommato dignitose.

Il 2004 inizia con auspici di grande miglioramento. Durante l’inverno si fanno tante ipotesi: dall’arrivo di uno sponsor petrolifero interessato a lavorare con Clifford alla gestione delle moto da parte del team di Nando de Cecco (che aveva partecipato al mondiale Superbike 2002 con Juan Bautista Borja), passando per l’acquisto delle Moriwaki che avevano gareggiato in qualche occasione nel mondiale 2003 e l’arrivo di Marco Lucchinelli come direttore sportivo. Di tutto questo, nulla accade. Nei primi test il team si presenta con le solite due Harris, da una parte del box c’è ancora Burns mentre dall’altra si presenta un giovanotto romano di 19 anni, Michel Fabrizio. Fabrizio viene dalla stessa categoria che ha già lanciato Burns, la Superstock europea, della quale è stato campione nel 2003 con la Suzuki Alstare di François Batta.

Nonostante tutte le “bocciature”, la Harris si rivela molto più affidabile e tutto sommato non distante dalle rivali in pista. Quello che accade a Jerez, seconda gara del mondiale, è incredibile: sotto il diluvio, Fabrizio termina al decimo posto nonostante una caduta, precedendo gente del calibro di Norick Abe e Loris Capirossi. Un’autentica impresa. Nel corso della stagione il campione della Superstock si dimostra più veloce di Burns, arrivando a punti anche al Mugello e in Germania mentre il suo compagno di squadra deve fronteggiare i postumi di un infortunio nella pre-season. Il rapporto tra Fabrizio e Clifford si interrompe però in Portogallo, quando Michel decide di accettare la proposta dell’Aprilia di sostituire l’infortunato Shane Byrne: scelta infruttuosa, poiché la Casa di Noale non lo conferma per le gare successive preferendogli Garry McCoy quando “Shakey” si infortuna nuovamente, qualche settimana dopo.

Clifford non vuole più sentir parlare di Fabrizio e Burns è di nuovo kappaò, quindi decide di pescare nuovamente nel mazzo della Superstock mettendo sotto contratto il due volte campione continentale James Ellison. Al suo fianco arriva un nome parecchio altisonante, grande protagonista della classe 125cc negli anni precedenti: trattasi di Youichi Ui, scaricato dal team Abruzzo nella ottavo di litro dopo la gara di Donington. Ui termina subito a punti a Motegi, con il 15° posto, mentre Ellison pur chiudendo la fila incassa un 13° nel primo Gran Premio del Qatar della storia. Alla fine del campionato, la WCM mette in saccoccia ben 12 punti costruttori (appena tre in meno rispetto alla Proton KR) e soprattutto registra pochissime rotture meccaniche nell’arco della stagione.

Anche l’inverno 2004-2005 non risparmia chiacchiere attorno al team WCM. Questa volta il nome che si lega alla scuderia di Clifford viene dalla Repubblica Ceca e si chiama Blata, azienda produttrice di minimoto. L’accordo va in porto e prevede la costruzione di una moto spinta da un motore a sei cilindri. Il progetto però tarda a vedere la luce e il mondiale 2005 vede al via una moto che di Blata ha solo il nome, perché in pista scende la solita Harris. Clifford conferma Ellison e gli affianca Franco Battaini, che a quasi 34 anni decide per il salto in MotoGP dopo essere stato protagonista della 250cc nella prima metà del decennio.

La moto ha ormai raggiunto un buon livello, considerato il punto di partenza. Battaini ed Ellison riescono a tenere il passo della vecchia Ducati GP4 guidata da Roberto Rolfo e della Proton dotata di motore KTM con Byrne alla guida; a fine stagione i punti totali sono 14. Il miglior risultato arriva con Battaini in Giappone, un 11° posto complice dei tanti ritiri. Una stagione buona che però non vede mai l’arrivo della Blata “vera”, che alla fine resta un progetto su carta senza ulteriore sviluppo. Nonostante la carenza di budget, nella prima entry list del mondiale 2006 vengono a figurare due WCM legate addirittura al marchio Bimota: i piloti sono Jeremy McWilliams e lo sconosciuto statunitense Jason Pérez, proveniente dalla Superbike AMA. La moto tuttavia non scende mai in pista e il team WCM diserta il mondiale MotoGP 2006.

Clifford però non si arrende e si unisce ad una piccola squadra britannica, Winona Racing, per correre qualche gara del mondiale 250cc. Il pilota arruolato non è nemmeno maggiorenne e farà parlare di sé qualche anno più tardi, specialmente nei campionati nazionali d’Oltremanica: Daniel Linfoot. Corrono otto gare (nella foto sotto, a Donington, Linfoot alle spalle di Jorge Lorenzo), senza fare punti, con in cantiere un nuovo progetto MotoGP per il 2007 in linea con i nuovi regolamenti 800cc. Questa idea naufraga però in poco tempo e per il team WCM è il definitivo addio al Motomondiale.

Quello del team WCM, insieme alla meno duratura e meno “vincente” Ilmor X3, è l’ultimo vero tentativo da parte di una piccola scuderia di dare la caccia ai grandi colossi del motociclismo. Un’idea nata da due grandi appassionati e conoscitori del mondo delle due ruote, scontratasi inevitabilmente con una realtà di costi spropositati che ben presto avrebbe invitato tutti quanti ad abbassare l’asticella.

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