L’alibi perfetto, tranne per se stesso

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di Alessandro Secchi @alexsecchi83
18 Luglio 2019 - 23:50
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Ho volontariamente evitato di dire la mia in questi giorni sul caso che ha tenuto banco dopo la gara di Silverstone. Al contrario del solito, invece di chiudermi nel mio foglio bianco senza leggere niente, ho voluto godermi un po’ lo spettacolo. 

Dopo aver praticamente letto tutto tra testate, siti come il nostro e social per capire un po’ come si muovono l’opinione pubblica e quella specializzata, è ora anche per me di fare il punto per quello che è il mio modesto pensiero sulla spinosissima questione Sebastian Vettel.

Non è nemmeno la prima volta che me ne occupo e ne spiego in breve il motivo: non mi accontento dei giudizi sommari e cerco sempre di approfondire. Soprattutto, non mi faccio bastare il vedere un pilota semplicemente come quello che spinge due pedali e gira un volante. Roba che, in un ipotetico iceberg, corrisponde più o meno alla punta che emerge dal mare. Nella profonda crisi del tedesco, che dura ormai da un anno per molti ma, per me, nasce da più lontano, ho la curiosità di chi vuole vedere oltre l’abitacolo, leggere quello che dicono gli occhi, la gestualità, le reazioni e tutto ciò che non è pura guida. Certamente dal divano, come si usa dire ultimamente: anche se, alla fine della fiera, pure quello è stato sdoganato. Il tutto, ve lo posso assicurare, con la massima attenzione, la voglia di scoprire ed il rispetto che dovrebbe sempre essere alla base quando si parla di questo o quel pilota. Perché è sempre facile scrivere e parlare, magari anche alle spalle, quando non si ha di fronte l’interessato. 

Forse è per questo che più volte, su queste pagine, ho preso le difese di questo o quel pilota. Negli anni – ormai sono nove – sono stato accusato di tifare mezza griglia per aver fatto da avvocato del web di questo o quel personaggio dopo un errore, un periodo no, un giro a vuoto. Negli ultimi tempi è successo, ad esempio, con Max Verstappen e Valtteri Bottas. Quest’ultimo è il caso più emblematico dell’ultimo biennio: è da sessione di popcorn al cinema leggere le timeline di chi l’ha accusato di essere lo scendiletto di Hamilton, una specie di Roscoe versione umana, per poi esaltarne le doti dopo le prime gare di questa stagione. Il classico cerchiobottismo da like: mettiti sempre dalla parte della gente e cavalca l’onda, così sarai osannato da chi ha la memoria corta. E sono tantissimi. Almeno fino a quando il numero stesso dei like non sparirà da tutti i social. Spero ardentemente che succeda il più presto possibile, perché di circensi dell’egocentrismo ne ho, personalmente, piene le palle.

Detto questo, leggendo e rileggendo tutto quello che è stato detto su Vettel in questi giorni mi rendo conto che questa è davvero l’epoca delle fazioni più estremiste amplificate dai social, dal disagio, a volte anche dall’ignoranza o dal tifo più becero. Quest’ultimo in particolare è stucchevole. Tifare un pilota, l’avevo già scritto in passato, non significa dover difendere anche l’indifendibile. È un concetto che avevo espresso tempo fa: crescere come tifosi significa saper anche riconoscere gli errori del proprio beniamino ed i suoi punti deboli, non cercare un complotto in ogni evento, una scusa per ogni errore, una riabilitazione per ogni caduta. Questo significa essere semplici fanboy, estremisti del tifo che per primi non fanno bene proprio al pilota che si crede di supportare. Credo fermamente che sia più appagante ammettere, metabolizzare e cercare di capire i motivi dietro ai quali certi eventi accadono.

La fazione opposta a quella dei fanboy è, da un anno a questa parte, quella di chi si masturba idealmente (e mi limito alla teoria, per la miseria!) per quello che sta succedendo a Sebastian. Da “mediocre” ad “idiota”, passando per tutti i migliori appellativi da tastiera, c’è una nutrita parte di persone – non tifosi e tanto meno appassionati – che godono fisicamente nel vedere un quattro volte campione del mondo in difficoltà, frastornato e a volte incapace di reagire se non esagerando, come successo questa domenica. Non c’è, in questi casi, miglior occasione per tornare indietro nel tempo ai quattro mondiali vinti con la Red Bull ripetendo pappagallescamente il mantra degli allori rubati.

Questa grafica (allineata ai quattro anni) torna sempre utile quando bisogna rinfrescare le memorie corte: se dovessimo parlare di vittorie in rapporto al fondoschiena, discorso che non sopporto, dovremmo quindi considerare che Hamilton ha rimpolpato le sue statistiche grazie alla serie di monoposto più vincente della storia della Formula 1, tra l’altro riuscendo a perdere un titolo contro l’unico pilota che poteva batterlo e cioè il suo compagno di squadra. Al contrario di una RB con il 27% di vittorie totali in meno e con almeno due campionati decisi contro piloti di altre squadre all’ultimo appuntamento. Campionati nei quali c’era anche un Hamilton a sua volta falloso in diverse occasioni, con una McLaren non certo al livello della RB. Ai tempi si parlava di foga, di voglia di guidare “sopra la vettura”. Chiaro, questo è un discorso che non piacerà ai tifosi di Hamilton come ai tempi non piaceva a quelli di Vettel, ma dimenticare stagioni ed eventi fa sempre comodo in determinati casi.

Capitolo stampa: non mi stupisco di quanto letto in questa settimana. Sbattere in faccia al pubblico la tamponata a Verstappen, quando abbiamo assistito ad una gara intensa e a momenti di lotta finalmente genuina e libera tra lo stesso olandese e Charles Leclerc, è normale, fisiologico, in linea con quanto visto in passato. Già alla fine del 2017, dopo gli episodi di Baku ed il crash di Singapore, scrivevo che l’idillio tra Vettel e la stampa era agli sgoccioli. Dopo quasi due anni il rapporto non può che essere peggiorato, soprattutto con il mondiale sfumato in annate che si credevano inizialmente buone, promettenti, addirittura vincenti ma condite da errori spesso incomprensibili ed utili ad alimentare l’astio nei confronti di un pilota che non si aiuta ed è mediaticamente debole, attaccabile.

Già perché al di là degli errori (che affronterò più avanti) i due più grandi problemi di Sebastian Vettel sono la genuinità – che sfocia in ingenuità colossale – e la totale assenza di appeal mediatico. Per genuinità intendo la naturalezza del lasciarsi andare ad atteggiamenti diretti e sinceri, come il mandare al diavolo Charlie Whiting in mondovisione in Messico o andarsi a scusare con Verstappen dopo averlo tamponato. Comportamenti comprensibili, almeno per me che cerco di immedesimarmi in abitacolo, così come sportivamente lodevoli nel caso di domenica. Ma entrambi totalmente fuori luogo in questo mondo, nel quale mostrare i propri punti deboli e certificare i propri errori è sinonimo di debolezza. Credete che a ruoli invertiti Max sarebbe andato a scusarsi con Sebastian, nonostante la colpa palese dello scontro? Ho qualche dubbio a riguardo. Ingenuità è anche prendere ed andare a mangiare dai vecchi amici della Red Bull in Austria, magari con la più grande naturalezza e non-malizia del mondo senza pensare, però, alle conseguenze di un gesto del genere, in un momento di questo tipo e con le voci sul suo futuro che si rincorrono. 

Ed eccoci all’appeal mediatico inesistente: se pensiamo che addirittura Kimi Raikkonen è sbarcato sui social possiamo immaginare quanto Sebastian sia rimasto all’età della pietra. Anche qui, scelta personalmente apprezzabile ma inconcepibile se sei un personaggio pubblico ed uno dei contendenti al titolo di campione di Formula 1. Ripeto: personalmente a me interessa zero di questo, ma è il mondo di oggi che non accetta decisioni di questo tipo. E sono scelte che pesano sui media che non possono parlare, raccontare, speculare, guadagnare ed avere un “ritorno” da un personaggio mediaticamente assente e si legano, magari, la cosa al dito. In questo Lewis è un maestro, IL maestro. Ascoltatelo: ogni pubblico che incontra con un microfono è il migliore del mondo, “the best crowd”. Non ho ancora capito quale sia davvero il migliore per lui ma poco importa, perché questo è il modo di fare accettato oggi, questo è ciò di cui la Formula 1 stessa ha bisogno per sponsorizzarsi nel mondo. Un personaggio forte, stravagante, alla moda, portavoce dello sport ovunque vada ed in qualsiasi situazione si trovi. Copertine, eventi, sfilate, servizi, sponsorizzazioni. Lewis, in questo momento, è la F1 dentro e fuori dalla pista. Vettel, da campione del mondo, sarebbe praticamente una disgrazia per il reparto mediatico dell’attuale Circus, a meno di fargli fotomontaggi con i baffetti alla Mario Bros con Charles nei panni di Luigi. 

Sono convinto fermamente che questi due aspetti, quello comportamentale e quello mediatico, siano colpe gravi quanto e più di quello che poi succede in pista, perché non ti permettono di avere le spalle adeguatamente coperte da un’immagine forte. E si resta, così, da soli: col fiato sul collo di un compagno che spinge come previsto, con la stampa che da due anni non ti perdona nulla e, nella vergogna del Canada, riesce comunque a puntare il dito su un’uscita di pista che magari, con un altro pilota al volante, uno forte anche nel paddock, sarebbe stata sinonimo di quanto si stesse spremendo per riuscire a vincere una gara con una monoposto inferiore.

Vettel, insomma, è da tempo un perfetto alibi. È l’alibi perfetto per la stampa che in Leclerc, il giovanissimo fenomeno allevato da piccolo, ha trovato il nuovo pupillo sul quale impostare la campagna mediatica di questa stagione già a partire dalla scorsa, a colpi di “nuovo Gilles”. È l’alibi perfetto per la Ferrari che, grazie alla nasata sulla Red Bull, ha passato una settimana in santa pace senza che nessuno facesse notare il mezzo minuto preso da Hamilton in trenta giri – dalla ripartenza dopo la Safety Car – da quello che per molti è ormai il vero primo pilota, così come l’ennesimo giro più veloce fatto segnare in carrozza all’ultimo passaggio e con gomme con gli stessi giri sulle spalle. Ecco, vorrei saperne di più su questo: perché la macchina non va, perché è più lenta rispetto a quella che l’ha preceduta. Vorrei analisi, prove, confronti. Mi dicono che il vero problema sia sul retro più che sul davanti e che soprattutto il tedesco ne paghi le conseguenze. Palle? Scuse? Non lo so, ma vorrei approfondire su questo. Infine, per chiudere la parentesi, Vettel è l’alibi perfetto dei fanboy più repressi, che non perdono occasione, tempo, byte per sostenere riscritture della storia che possono essere smontate semplicemente rileggendola, la storia. 

Un alibi perfetto per tutti tranne che per se stesso. Peso mediatico negativo ed ingenuità sono motivi extra pista che forse non tutti hanno considerato fino ad ora, ma gli errori ci sono. Credo di non aver mai assistito ad una crisi così lunga in ventisette anni che seguo la F1, una crisi senza apparente via d’uscita se non quella di mollare il colpo ed ammettere il fallimento. E sono incuriosito da tutto questo, affascinato. Non mi interessa nulla, come ho detto all’inizio, delle sentenze sommarie, del sopravvalutato, del viziatello, della mediocrità e di quant’altro. Certe cose le lascio dove stanno. Restando convinto della mia idea sul suo valore assoluto (e preferisco non cambiarla che farlo ad ogni gara) mi pongo domande e cerco di dar loro una risposta. Quanto contano, in questi errori, gli aspetti tecnici, quelli psicologici e quelli ambientali? Quanto la Ferrari è ed è stata inferiore alla Mercedes? Quante volte Vettel è andato in quello che si chiama overdriving per sopperire ad una macchina che, magari, sentiva non reggere più il passo della Mercedes con l’andare del campionato aggiungendo errori tragici a difficoltà in aumento? Anche perché va bene gli errori, ma nel 2017 si è arrivati a 46 punti da Hamilton e nel 2018 ad 88, non noccioline. Con altri piloti si sarebbe vinto il mondiale? Forse sì, forse sarebbe andata peggio ancora, per mille motivi; non ho la sfera di cristallo, non ce l’ha nessuno. Ed ancora: quant’è il peso che si porta sulle spalle per non essere ancora riuscito in quello che è dichiaratamente uno dei suoi obiettivi, quello di vincere con la Ferrari? Quanto il pensiero, ammesso che ci sia, di non essere più pienamente al centro del progetto una volta affiancato da un fenomeno della next generation, dal viso angelico, dalla mente sgombra da pensieri e dal piede indiavolato quando si trova Verstappen nei dintorni? Quante volte avrebbe voluto dire che di più e togliersi dei sassetti ma per quieto vivere ha lasciato perdere? E quanto la stampa può incidere, anche se non lo si vuole ammettere, sull’ansia di dover recuperare dagli errori?

Tutte domande, queste, alle quali io non so dare risposta ma che mi pongo perché, come scritto all’inizio, mi rifiuto di fermarmi all’immagine di chi esce dal box e ci rientra, magari con le ossa rotte. Il mestiere di pilota, soprattutto ora che ho la fortuna di poter parlare con alcuni di loro, è un universo che sarebbe troppo semplice contestualizzare nel solo guidare come facevo anch’io tanti anni fa. C’è un mondo che precede l’infilarsi in abitacolo: un mondo fatto di rapporti, persone, fiducia, magari bugie, uffici stampa, necessità, immagine, sopravvivenza. Ed è un peccato ignorare tutto questo, almeno per me. 

Ovviamente le risposte a tutte queste domande le può avere solo una persona e risponde al nome di Sebastian Vettel. Credo sia consapevole meglio di tutti noi della gravità dei suoi errori in rapporto al suo palmares, la non necessità di alcuni, l’incomprensibilità di altri e quanto questi siano stati accentuati, enfatizzati, eccessivamente rivangati ad arte. Credo sappia meglio di tutti noi e delle nostre ipotesi quanto si senta più o meno protetto, attaccato, delegittimato e svuotato da questo periodo che non trova fine. Credo, soprattutto, che sia al corrente di quanto sia necessario finirla ed il prima possibile di mostrare il fianco alle critiche.

Forse per questo è troppo tardi, almeno per quanto riguarda la Ferrari. Qui o altrove, però, credo sia importante ritrovarsi e ritrovarlo perché, anche se non non twitta e non pubblica stories, sarebbe un peccato per la F1 perderlo. Che abbia rappresentato un periodo di questo sport credo sia assodato. Ricondurre tutto al revisionismo credo sia materia che appartiene ad altri ambiti.

Quello che penso, ormai da tempo, è che a questo punto sia necessario un reset totale, un cambio di colore, chiudere un libro che si pensava potesse piacere di più per iniziarne un altro. Un modo per liberarsi la mente, per riscoprirsi. E non essere più l’alibi di nessuno.

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