La tenerezza del Motodrom

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Tempo di lettura: 4 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
21 Luglio 2018 - 18:46
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“Once upon a time”, si dice. C’era una volta, ad Hockenheim, un Motodrom.

Ci si arrivava dopo cinque chilometri percorsi a motori strillanti immersi nella foresta. Una volta superata l’ultima veloce chicane, intitolata ad Ayrton Senna, si premeva a fondo fino alla curva Agip che immetteva appunto nel Motodrom, con le sue imponenti tribune multicolore. Il carico aerodinamico era minimo, le ali praticamente orizzontali come a Monza. Una pista nella pista.

Dopo quattro rettilinei percorsi alla follia arrivava la zona dove le doti di guida facevano la differenza, con una monoposto leggerissima al posteriore. La Agip, una veloce piega a destra, era la prima di una serie di curve impegnative al massimo che riportavano sul rettilineo iniziale. Ci si arrivava ben sopra i 300 all’ora e per sfruttarla al 100% era importante portare tanta velocità in ingresso e lasciare sfilare la monoposto larga, larghissima in uscita mentre la sede stradale si restringeva. La Agip era solo il primo ostacolo: si arrivava poi alla Sachs, un lungo tornante a sinistra con un discreto banking. La frenata era importantissima così come delicata: la monoposto andava accompagnata in ingresso con la paura di perdere il posteriore da un momento all’altro. Una volta inserita la monoposto non era tanto importante tenere la corda quanto essere precisi e costanti nel mantenere la velocità, senza sbavature e senza scherzi dal retrotreno. Importante era anche uscire bene sul cordolo esterno ed andare di gas quanto prima per lanciarsi nel successivo breve allungo. Una leggera piega a sinistra precedeva le ultime due curve a destra del circuito, la Opel e la SudKurve, caratterizzate da un sottosterzo clamoroso quanto inevitabile. Si remava, remava e remava ancora con il volante come se si fosse sul ghiaccio, mentre si era in piena estate, per tenere la monoposto in una traiettoria che raccordava le due curve a farle sembrare quasi una sola. Avere una linea pulita e senza sbavature significava semplicemente che non si stava andando abbastanza forte. Si usciva, quasi sempre scodando, per immettersi nel rettilineo del traguardo, pronti per altri sette chilometri di adrenalina nella cara, vecchia Hockenheim.

2018. Un’altra Hockenheim, un altro Motodrom. Sempre imponente, colorato, storico, sempre con il suo pubblico. È ciò che resta di una pista gloriosa ma, al tempo stesso, capisci che manca qualcosa. Mancano quelle ali orizzontali, manca l’arrivarci dopo cinque chilometri di puro vento in faccia, manca l’affrontarlo con la consapevolezza che si tratta di qualcosa di opposto rispetto al resto della pista. Il Motodrom pre-Tilke era un circuito nel circuito, una sfida nella sfida, un palazzetto del ghiaccio in pieno luglio. L’attuale Motodrom ha subito indirettamente e senza colpe l’appiattimento totale di Hockenheim, trasformata da un lungo viaggio nelle foreste ad un kartodromo su grande scala. Prima gli davi del lei, adesso gli dai del tu e se non ti ascolta lo aggredisci pure. Prima pensavi tre volte a quanto tenere giù il piede, ora lo tieni e basta. Prima non leggevi gli sponsor su quell’ala posteriore, adesso ci starebbe tutta la Divina Commedia. La Agip, o come si chiama adesso, è diventata una delle tante, la Sachs quasi. Nelle ultime due il sottosterzo quasi non c’è più: invece che pensare a tenerla in strada, invece che driftare, pensi a quanto andar forte perché la macchina sta giù, incollata. È anche merito, si fa per dire, delle monoposto moderne, ma il disastro del 2002 è sempre più vivo. E, per assurdo, quanto quella decisione sia stata deleteria non lo vedi in quei lunghi rettilinei fagocitati anno dopo anno dalla natura, ma proprio dal Motodrom, trasformatosi da luogo protagonista di azioni al limite ad anonima sequenza di semplici curve. 

“Con la parte dello stadio percorsa senza carico sembrava di slittare sulla neve. Era un bel divertimento. Adesso tutti sono a pieno carico ed è diventato come tante altre curve”. Parole di Juan Pablo Montoya, autore dell’ultima pole sul vero Hockenheim, anno 2001. Un’eternità fa: con il Motodrom ancora lì e che, da lì, non può neanche prendere ed andarsene dopo anni nell’ombra. Fa tenerezza, quasi tristezza. Ma, quanto meno, chi l’ha vissuto nei tempi d’oro ricorderà sempre il rispetto che gli si portava. Quello sarà per sempre.

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