La bandiera vale la pena…

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di Samuele Prosino
28 Gennaio 2019 - 14:00
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La 24 Ore di Daytona 2019 è stato un grande insegnamento di vita per tutti. Ora ti spiego il perché, mio caro e unico lettore.

Siamo sempre travolti da una quantità bestiale di faccende. Di cose, varie. Bambini che strillano perché hanno riempito il pannolino, madri che tirano ciabatte da 30 metri, colleghi che ridacchiano pregustando la loro evoluzione e la tua involuzione. Lo stress, ovviamente, è sempre molto alto. Poi però sai che durante il weekend esiste qualcosa che si chiama motorsport e che ti darà soddisfazione. Tutto l’anno va bene, per sollecitare questa passione: i weekend sono 52 o 53, e ci sono gare sostanzialmente sempre. Basta avere un po’ di curiosità.

Tra le molte gare di questo weekend del 26-27 gennaio c’era la 24 Ore di Daytona. Una gara colossale da sempre. Una da vedere, anche solo per un paio d’orette, per capire l’effetto che fa. Mi sono cascate le braccia quando su Facebook, sotto i vari post pubblicati dalla pagina ufficiale della F1, ho visto persone lamentarsi per l’attesa di Melbourne e pubblicare i soliti meme, tipo “oh, cosa farò senza F1 per tutto questo tempo?” (oltre a Daytona c’erano pure Formula E e Mondiale Rally, così per scrivere).

Ma staccati un attimo dalla F1, che non scappa, e guarda questa 24 Ore! Un gara sprint esagerata, con condizioni meteo allucinanti, due mega bandiere rosse e un filotto di bandiere gialle che nemmeno nella Nascar. Eppure questa gara ha insegnato molte cose: il senso dell’attesa; il cameratismo dei piloti; il realismo dell’organizzazione gara; il fatalismo ottimista di chi è rimasto nei camper o in tenda per essere lì, all’interno del catino.

Perché il senso dell’attesa? Perché non sempre è lo spettacolo a essere decisivo, nel formare un ricordo. Anche l’attesa è parte dell’attrazione. E in questa Daytona 24 tutti hanno atteso parecchio. Non solo per la bandiera rossa. Ma per le soste ai box decisive. Per i cambi pilota al momento giusto. Per non finire addosso alla vettura davanti quando c’erano nuvole d’acqua che manco il muro di Berlino. E poi c’è stata l’attesa di chi guardava da casa: che non è mai stata vana, visto che nel frattempo i commentatori coinvolti nella diretta IMSA si sono dati da fare per snocciolare racconti, sguinzagliando intervistatori ovunque. Ad esempio si è sentito Rubens Barrichello dire, con una voce molto rilassata, che nonostante la sua voglia di guidare sul bagnato la decisione di mettere fuori la bandiera rossa era corretta, e che sua moglie non era affatto contenta dei suoi turni di guida, sentendo una paura mai provata, nemmeno ai tempi della F1.

Nessun pilota si è messo di traverso a dire che si poteva correre: tutti hanno ragionato secondo logica, e la logica diceva che con quel tipo di macchine andare a correre la Barcolana, soprattutto nella zona della ‘fermata dell’autobus’, non era proprio il caso. Nessun team radio, nessuna polemica: non so spiegare bene come, ma senza questo insight che in F1 oggi si usa molto mi sono trovato personalmente molto bene.

Sulla direzione gara c’è ben poco da commentare: la decisione di fermare la gara è stata corretta. Come è corretto rinviare una partita di calcio se il campo si trasforma in piscina olimpica. Anzi, andrebbe riconosciuto un certo fegato nel far correre i piloti, soprattutto verso le ultimissime ore, con un carico enorme d’acqua praticamente in ogni angolo della pista: è un po’ come se in una gara di coppa del mondo di sci avessero fatto scendere gli atleti con nebbia o neve abbondante.

Ne approfitto per ‘rivalutare’ insieme al mio caro e unico lettore il difficile ruolo di Charlie Whiting come direttore di corsa della F1. Da una parte, lui deve salvaguardare l’incolumità dei piloti; dall’altra parte ha la pressione dello ‘show’: scuderie, sponsor, organizzatori e tifosi che premono per vedere le macchine girare in pista. Suzuka 2014, pioggia battente e buio: roba da bandiera rossa. O gialla? Una decisione difficile. Jules Bianchi ne paga le conseguenze con la vita.

Ma sono sicuro al 100% che se Charlie Whiting avesse chiuso la gara qualche giro prima, per impraticabilità del campo, qualcuno sarebbe stato scontento con la decisione, perché “una volta non si faceva così”, perché “in pista i piloti DEVONO rischiare”, perché “per un po’ di pioggia, che vuoi che sia?”.

Alla fine lo spettacolo è negli occhi e nella mente di chi sta guardando: è inutile fare milioni di sondaggi per capire che spettacolo si vuole, finché ci saranno persone a lamentarsi. E questa 24 Ore di Daytona è stata uno spettacolo, seppur sia durata meno del previsto. E se lo hanno detto i diretti protagonisti, perché non credergli?

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