Imola ’94 | Ayrton, un’eredità per sempre

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Tempo di lettura: 7 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
1 Maggio 2019 - 02:53
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Pensavo di sapere come iniziare a parlare di questa giornata. Mi ero fatto un piano mentale e poi, ora che mi trovo qui davanti a scrivere, non so da dove partire. Perché ci sono mille modi per affrontare un anniversario. Ne puoi parlare con il semplice ricordo, puoi ripercorrerlo passo passo, oppure puoi riflettere sul come quella giornata ha cambiato la tua vita e quella degli altri, a volte un mondo intero. Per sempre. E quindi vado a braccio, così si dice.

Chi si è avvicinato alla Formula 1 negli ultimi anni, chi vive il Circus da quando è diventato mediatico, Social, si informerà scoprendo che è nato quando i nonni erano giovani, le TV non c’erano e le notizie arrivavano tramite i giornali del tempo. Uno sport che si è evoluto insieme alla tecnologia, diventando man mano a portata di tutti fino a giorni nostri, in cui i piloti ci raccontano giorno per giorno tramite un cellulare la loro vita. 

Tempo fa avevo scritto che non credo a chi si sceglie un “idolo” che non ha mai visto dal vivo, che non ha vissuto direttamente in quei determinati momenti, sentendo sulla propria pelle le emozioni di un’azione contemporanea vista, annusata, ascoltata, toccata con mano. Mi voglio ricollegare a quel pensiero. Così come per me sarà sempre difficile appassionarmi emotivamente di chi c’è stato prima, credo sia difficile per le nuove generazioni immaginare e realizzare quanto questa Formula 1 non sia figlia di quella nata ai tempi dei nonni, quanto in realtà del 1° maggio 1994. Il giorno in cui un uomo, con la sua scomparsa, ha chiuso la prima era della Formula 1 dando il via alla seconda. Quella che, appunto, viviamo ai giorni nostri. 

«Dov’eri quando è morto Ayrton Senna? Prova a fare questa domanda a chiunque. Ciascuno ti risponderà descrivendoti un luogo, il momento preciso»

Lucio Dalla, 1996

È vero. Dopo due giorni sulla sedia della cucina ad assistere al botto di Rubens e alla tragica scomparsa di Roland, la domenica sono sul letto della camera con papà, con la speranza o forse più la convinzione che non possa andare peggio. Arriva il via e con lui il primo incidente dopo pochi secondi. Ruote che volano in tribuna, auto distrutte. Ci basta uno sguardo per dirci che non c’è niente da fare: non è ancora finita. Si ripulisce la pista e si procede con la Safety Car. L’Opel Vectra ondeggia guidando il gruppo: l’ultima vettura capace di stare davanti ad Ayrton. Poi la ripartenza ed un primo giro senza apparenti problemi.

Ayrton e Michael passano sul traguardo per iniziare il settimo passaggio, la regia inquadra la Williams dalla camera car della Benetton. Inizia il Tamburello, sembra tutto filare liscio ma poi è un attimo: la Formula 1 muore davanti ai nostri occhi. L’elicottero inquadra i resti della FW16: vedo il casco muoversi per un attimo, tiro un sospiro di sollievo ma al momento non capisco che è tutto tranne che un buon segnale. In pochi attimi accorrono i medici, si accalcano su Ayrton. Corro urlando a chiamare mia madre per avvisarla di quello che sta succedendo.

Mi ritrovo ancora in cucina, come al venerdì, come al sabato, su quella sedia ad assistere ai soccorsi da quel Grundig da 14″. Da uno simile, il giorno prima, Ayrton ha visto dal suo box Roland perdere la vita. Per il terzo giorno di fila le stesse scene: un medico che sale sul cofano della Williams, la concitazione, l’estrazione. L’elicottero gira attorno al luogo che sta tenendo in apprensione il mondo sportivo e non solo. Dall’altra parte dell’Atlantico un paese intero, il Brasile, si è fermato. In pochi minuti un altro elicottero, quello del 118, atterra direttamente sulla pista: niente Centro Medico, non c’è tempo. Il resto è storia. La corsa a Bologna, quattro lunghe ore di attesa mentre la corsa viene ripresa e portata a termine con un altro rischio ai box. La Minardi di Alboreto perde una ruota dopo il pit stop ed investe dei meccanici. Sembra un incubo ma è la terribile realtà.

Alle 18.40 il bollettino medico dall’Ospedale Maggiore gela il mondo. Ayrton non c’è più ma, con sé, ha portato via idealmente Roland ed anche il pallone. Non si può più giocare così, bisogna cambiare tutto.

Tre giorni dopo il Brasile accoglie a casa il suo eroe. Non ho mai visto da quel giorno un funerale del genere e non solo per uno sportivo. Forse chiamarlo funerale è addirittura riduttivo. Milioni di persone riversate sulle strade, una disperazione collettiva di proporzioni impossibili da immaginare. La dimostrazione di quanto Ayrton fosse già in vita un eroe per il suo popolo. 

Per diversi anni mi è capitato ciclicamente di rivivere in sogno quel camera car. L’inizio del Tamburello, i sobbalzi sui rattoppi dell’asfalto, la Williams che si distanzia leggermente dal cordolo, una leggera correzione per riportarla più vicino e, in quel momento, l’imprevisto. L’auto punta dritta incontrollabile, il casco si scuote per quell’improvviso cambio di direzione, Ayrton tenta di frenare. L’ho rivisto centinaia di volte, soprattutto quando sono stati divulgati i video del CINECA, il consorzio di università italiane che per il processo aveva elaborato un video multi schermata, comprendente tutte le inquadrature dell’incidente unitamente ai dati della telemetria della Williams.

Ricordo di aver trascritto tutti i valori pubblicando poi una ricostruzione su un mio vecchio sito. Si parla ormai di più di quindici anni fa: ho ancora tutto salvato.

«La Formula 1 ormai è per le fighette»

Guardate la foto iniziale. È di quel giorno. Il casco bene in vista, le spalle fuori. Oggi, il casco, si fatica a notarlo, tanto che è stato necessario rendere più visibili i numeri di gara. Un esercizio stilistico? No. È tutto figlio di quella domenica, dell’eredità lasciata da Ayrton e Roland. Le scocche squarciate della Williams e della Simtek, venticinque anni dopo, sono diventate cellule di sopravvivenza dalla resistenza indefinibile non solo nella massima serie.

L’ho scritto ieri: la morte di Ayrton ha risvegliato da un torpore che Roland, da solo, non sarebbe riuscito ad interrompere. Perché sarebbe stato schiacciato dal mondo che invece Ayrton, con la sua scomparsa, con il suo peso di campione assoluto, ha letteralmente dissolto. Da quel giorno la sicurezza è diventata un imperativo, un obiettivo da perseguire sempre più anno dopo anno. Le monoposto si sono evolute, i crash test si sono moltiplicati su ogni angolo, è stato introdotto l’Hans e i caschi si sono sviluppati a loro volta. I circuiti sono stati rivoluzionati, quelli di nuova generazione prevedono già vie di fuga infinite mentre gli storici sono stati adattati nel tempo. Incidente dopo incidente non ci si è mai fermati e mai ci si fermerà nell’elevare lo standard minimo di sicurezza. Jacques Villeneuve e Ricardo Zonta (Spa), Luciano Burti (Spa e Hockenheim), Robert Kubica (Canada), Felipe Massa (Ungheria), Mark Webber (Valencia) e chissà quanti ne sto dimenticando alle due e mezza di notte, sono ancora vivi perché equipaggiati con standard cresciuti nel tempo a partire da quel 1° maggio 1994. C’è solo una grande macchia in questi venticinque anni, quella di Jules Bianchi. Ma qui, la sicurezza delle vetture, c’entra davvero poco.

Quando ci si lamenta dell’Halo e di quanto la sicurezza abbia snaturato la Formula 1 anno dopo anno, etichettando i piloti come fighette, bisogna porsi sempre una domanda: siamo davvero disposti, quasi nel 2020, a veder morire un pilota per soddisfare la nostra sete di divertimento? In cinque lustri ho visto con i miei occhi lasciarci Ratzenberger, Senna, Kato, Tomizawa, Simoncelli, Bianchi, Wilson, Salom. E, se si potesse tornare indietro e fare il possibile per evitarlo, non mi scandalizzerei di certo. Sarà perché sono nato in un periodo diverso da quello di tanti puristi, ma non mi sono avvicinato al mondo dei motori perché ne faceva parte la morte, ero troppo piccolo per considerarlo. Mi piaceva semplicemente – ed ingenuamente – vedere correre le auto. La componente più ingrata del motorsport mi si è palesata fragorosa il 30 aprile e, certamente, mi ha legato di più ai piloti. E mi tiene legata ancora adesso perché, come Jules insegna, il rischio c’è e ci sarà sempre. Con una differenza fondamentale rispetto a venticinque anni fa: ora ci sono la consapevolezza e la volontà di fare il possibile per ridurlo, questo rischio. 

Essere contro questo principio significa considerare inutile la morte di Ayrton: la sicurezza odierna è la sua eredità, il suo vegliare su questo mondo e proteggere i suoi colleghi odierni.

Lo sarà per sempre.

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