I quattro anni più duri, per la mente e per il fisico

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di Alessandro Secchi @alexsecchi83
11 Luglio 2019 - 22:50
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Dopo i semiassi persi per strada del ’96, la sportellata di Jerez ’97 e la gomma esplosa a Suzuka nel ’98, il 1999 sembra promettere bene per Michael e la Ferrari. Vittorie ad Imola e Monaco ed una F399 che può lottare con la McLaren e Mika Hakkinen.

Nessuno in quell’11 luglio a Silverstone, esattamente vent’anni fa, ha però idea che a mettersi tra il titolo, Michael e la Ferrari ci si possa mettere anche una vite allentata, quella di spurgo del freno posteriore sinistro. La precisione della iella fa sì che la perdita di pressione arrivi nel punto più veloce, alla fine dell’Hangar Straight verso la curva Stowe nel corso del primo giro. Un missile rosso fluttua sulla ghiaia e si stampa contro protezioni, infilandosi nelle tre file di gomme che precedono il muretto. Michael si lancia in gesti di stizza, tenta di uscire dalla monoposto ma non ci riesce, c’è qualcosa che non va. 

Tutto fermo: medici, teli, elicottero che gira attorno alla scena, replay vari che mostrano la forza dell’impatto. Spavento. Niente Twitter, Facebook o robe del genere per cercare di avere commenti in diretta da questo o quell’addetto ai lavori presente sul posto. Si pende dalle labbra di chi commenta in TV e degli inviati sul posto. I resti della F399 mettono paura, il davanti non c’è più. Si inizia a temere per gli arti inferiori: il mondiale 1999 per Michael finisce infatti ad estate appena iniziata, con la gamba destra spezzata ed i sogni di gloria ancora rimandati. Salterà sei gare mentre Eddie Irvine terrà a galla la Rossa con una stagione fantastica e riabilitata, in parte, anche dagli errori della McLaren. Il ritorno a Sepang lo conosciamo tutti: tante domande (“Michael sarà ancora lo stesso di prima?“) e quel secondo inflitto ad Eddie in qualifica, visto in un’edicola prima di entrare a scuola, a spegnere qualsiasi dubbio e farmi tirare un sospiro di sollievo. Era tornato, ancora più forte.

C’è una sostanziale differenza tra quelli che sono stati i cicli Red Bull e (attualmente) Mercedes rispetto a quello che ha riportato la Ferrari sul tetto del mondo dal 2000 al 2004: gli anni precedenti. Austriaci ed anglotedeschi, così come Vettel e Hamilton, si sono “ritrovati” con RB5 (nel 2009) e W05 (nel 2014) pronte a dominare dopo un cambio netto di regolamento. Non è una colpa, è un dato di fatto. Che Red Bull non sia riuscita nel suo intento di vincere il mondiale al primo anno è questione di BrawnGP, mentre la Stella a tre punte non ha avuto avversari sin da subito. Ma è innegabile che le due rivoluzioni regolamentari siano state determinanti per l’inizio delle loro epoche d’oro e, nel caso della Red Bull, per la sua fine proprio al termine del 2013 con il passaggio all’ibrido.

La F1-2000, la monoposto del ritorno al successo della Ferrari del 2000, era figlia invece di un’evoluzione partita nel 1998 con la F300 e di un ciclo di crescita strutturale e di team iniziato nel 1996. Un percorso del quale si ricordano più volentieri – per indole – solo gli ultimi anni vittoriosi lasciando da parte ciò che è stato prima. Un errore madornale: senza quel quadriennio di delusioni, sconfitte, errori, dolori nella testa ed anche nel fisico, probabilmente non avremmo assistito alle vittorie successive, frutto di lavoro, sviluppo, test in pista senza simulatori e regole limitanti.

 

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