I limiti di Lewis

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Tempo di lettura: 7 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
30 Aprile 2017 - 23:00
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Gli ultimi due appuntamenti mondiali hanno lanciato la figura di Valtteri Bottas: prima pole position in Bahrain, prima vittoria in Russia. Il finlandese, parentesi cinese con testacoda assurdo a parte, è indicato da molti come il pilota che più di tutti ha stupito in questo inizio di stagione. Benissimo nei test invernali, attaccato ad Hamilton a Melbourne, richiamato all’ordine in Bahrain, vittorioso a Sochi, e appunto falloso in Cina nella seconda gara.

Ma perché ha stupito così tanto Bottas? Non tanto per i risultati: sebbene prima pole e prima vittoria siano traguardi importanti, dobbiamo tenere anche conto del mezzo a disposizione. Per lo più, quello che fa clamore è il confronto con Hamilton. E qui si apre nuovamente il capitolo Lewis: nuovamente perché quella contro Rosberg sembrava quasi una parentesi mistica, appartenente ad un’epoca diversa. Un libro chiuso, una porta serrata a quattro mandate. Invece, dopo quattro gare, siamo ancora qui a parlare del compagno di Hamilton che riesce a mettersi davanti al Campione, quello con la C maiuscola. Lewis ha trascorso l’inverno a marcare il territorio, intendendo la vittoria del 2016 di Rosberg come una specie di incidente di percorso, una conguinzione astrale o giù di lì: eppure la situazione non pare essere poi cambiata più di tanto anche sostituendo il pilota della vettura gemella. 

Sono anni che mi chiedo quale sia il vero valore di Hamilton, e non riesco a portarlo al livello che i numeri gli dovrebbero attribuire. Numeri pesanti, pesantissimi. In questo il discorso va di pari passo con quello fatto da tanti, negli anni, con Sebastian Vettel. Stagioni dominate “contro nessuno”, “con la macchina migliore”, con statistiche cresciute vertiginosamente in poco tempo. La differenza nell’opinione pubblica tra i due risiede nel fatto che Sebastian ha vissuto la sua epoca d’oro vincendo contro la Ferrari, motivo per il quale da più parti è stato dipinto come il fortunato di turno. Tutti titoli spariti a partire dall’inverno 2014/2015, ovviamente. Lewis, invece, ha goduto di un triennio senza avversari “terzi” a parte il compagno di squadra, e per questo la sua epopea verso l’iride è stata giudicata in maniera meno ostile. 

Detto questo, è proprio il confronto con il compagno di team che nel corso degli anni mi ha lasciato senza risposta alla domanda principale. Perché, a conti fatti, nei dieci anni di permanenza in F1 (questo è l’undicesimo) l’unico team mate davvero inferiore a Hamilton è stato il buon Heikki Kovalainen nel biennio 2008/2009. Per il resto, Lewis ha sempre trovato bene o male pane per i suoi denti. Il primo anno con Alonso lo ricordiamo tutti: la novità di un giovane dal talento straordinario, una guerra sportiva in pista e politica all’interno della Mclaren. Il triennio con Jenson Button l’ha messo di fronte ad un pilota sottovalutato: nonostante Jenson sia giunto in Mclaren portando con sè il numero 1 sul musetto nel 2010, l’opinione pubblica lo dava per spacciato contro il fenomeno di Stevenage. Nel computo totale del triennio corso insieme, alla fine, Button ha collezionato più punti di Lewis e tutta questa grande differenza, alla fine, non si è notata. Ed eccoci al quadriennio con Nico Rosberg in Mercedes. Dopo un 2013 alla pari, dietro l’ancora dominante Red Bull, l’era ibrida che ha trasformato la Freccia d’Argento nell’arma totale. Titolo 2014 chiuso a fine anno (non dico all’ultima gara con i doppi punti, per carità), un 2015 conquistato meritatamente ed anticipatamente, un 2016 perso all’ultima gara.

Di queste stagioni, solo quella del 2015 è considerabile anno con un Campione che vince di forza su un compagno “inferiore”, sebbene il computo delle vittorie di quel campionato sia di 10 a (comunque) 6 per Lewis. Certo, si dice che le ultime tre vittorie consecutive di Rosberg siano state frutto del rilassamento post vittoria del titolo dell’inglese, ma sebbene io non creda che un Campione in carica ami lasciare tre corse al compagno meno quotato, le altre quattro consecutive della passata stagione non si possono di certo considerare come un regalino posticipato. Ecco, la mia idea di Campione totale è quella di chi non lascia mai nemmeno le briciole al compagno, di chi in qualsiasi situazione voglia vincere, sempre e comunque. Lasciare sette gare consecutive al compagno di squadra non rientra in questo quadro. Immaginate Prost, Schumacher, Senna, lasciare tanto a Hill, Barrichello o Berger. E qui arriviamo ai limiti di Lewis.

Il primo è al tempo stesso il motivo per il quale l’inglese ha ottenuto sin dal debutto le luci della ribalta, ovvero l’aver esordito al volante di quella Mclaren che, nel 2007, era la migliore monoposto del lotto insieme alla Ferrari. Con la possibilità di ottenere subito pole, vittorie, giri veloci, addirittura quasi il titolo.Ovviamente, l’ingresso al top è stato meritato con ciò che Lewis ha dimostrato soprattutto in GP2. In questo modo però Hamilton non ha trascorso, in F1, nemmeno un anno di gavetta iniziale, quella che ti costringe a lottare per posizioni di rincalzo, di sgomitare a centro gruppo, di dover insomma remare per risultati poco importanti per poi premiarti con un ingaggio top se sai fare bene. L’inglese ha assaporato subito il gusto della vittoria diventandone in parte vittima, pretendendo di poterla pretendere, considerandola di sua proprietà, unica possibilità senza alternative. Possiamo considerare, come gavetta, la prima metà del 2009, anno che comunque al suo termine ha portato a Lewis due vittorie, un secondo e due terzi posti. Ma sgomitare dopo aver vinto un titolo credo sia, sebbene frustrante, diverso rispetto ad un esordio da zero.

Il secondo limite, conseguenza del primo, è quello perdere lucidità quando le cose non vanno al 100% secondo i piani, ovvero quando la vittoria non è possibile o sta sfuggendo di mano. Non appena Lewis capisce di essere in difficoltà entra in modalità complotto. Non contempla praticamente mai l’errore personale come nelle partenze sbagliate, ma cerca il caprio espiatorio di turno come lo scambio dei meccanici, le strategie in favore del compagno, il famoso “Because I’m black” o una qualche entità mistica che non vuole fargli vincere il mondiale. Atteggiamento francamente poco edificante, che porta al faticare nel riconoscere i meriti dell’avversario quando le situazioni si fanno complesse. Perché fino a quando Rosberg non è stato una minaccia pacche sulle spalle e complimenti si sono sprecati, ma abbiamo sentito e letto tutti quanto dichiarato durante l’ultimo inverno, una specie di delegittimazione postuma, un totale disconoscimento del titolo conquistato dal suo, direi, ex amico di lunga data.

Il terzo limite è caratteriale: Hamilton è vittima, secondo me, dell’immagine che si è creato. Il porre tra sé e gli altri una maschera, in questo caso quella del duro, del rockettaro, è sempre prerogativa di persone estremamente sensibili, quale credo Lewis sia. O meglio, penso (e parlo solo di sensazioni personali, ovviamente) che in realtà Lewis sia una persona migliore ma soprattutto molto insicura, al contrario di quanto possa sembrare. Questa sensazione si acuisce nei momenti in cui si trova sotto pressione all’interno dell’abitacolo, quando inizia a dubitare delle strategie e di chi lavora intorno a lui se le cose non girano per il verso giusto. Il continuo accostamento mistico con Senna, quasi come se il brasiliano fosse un santino, sembra quasi un’ancora di appoggio psicologica, trasformatasi poi in un paragone troppo scomodo sfruttato dai media. Quando poi era lo stesso Ayrton a dire di non avere miti particolari e di affidarsi solo al duro lavoro e alla dedizione.

Dedizione, appunto: il dettaglio alla base del successo del 2016 di Rosberg. Quel 120% che lo ha sfinito portandolo al ritiro ma permettendogli di conquistare un qualcosa inimmaginabile per quasi tutti. Ed è proprio dalla scorsa stagione, demonizzata per un inverno intero, che Lewis avrebbe dovuto, o dovrebbe, ripartire: perché il talento in F1 non è tutto ma solo una parte del curriculum del pilota. E quando se ne ha tanto, come tutti riconosciamo a Lewis, è un peccato non sfruttarlo al 100%.

Qual è, quindi, il vero valore di Lewis? Per quanto mi riguarda (d’altronde questo è un blog) proprio quello che sta dimostrando. Quello di un campione dal talento cristallino ma attenuato da limiti che, secondo me, non gli valgono l’ingresso lassù, nella stanza dei Re.

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