Fernando e la maledizione della prima Woking

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di Alessandro Secchi @alexsecchi83
31 Maggio 2017 - 13:30
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Guardando interdetto il fumo uscire dalla sua DW12 numero 29 a venti giri dal termine della tanto sognata 500 miglia di Indianapolis, ho pensato che evidentemente sulla strada di Fernando Alonso deve esserci un ostacolo difficile da superare. Un’avventura così, preparata così, che termina così, è quanto di più ingiusto possa esserci per un pilota che al debutto in una gara simile, senza alcuna esperienza precedente, ha dimostrato di avere le carte in regola addirittura per vincerla al primo colpo.

Attorno al personaggio Alonso ruotano fondamentalmente due grandi schieramenti: i pro e i contro. Parto da questi ultimi, i più agguerriti dei quali non perdonano ancora oggi il periodo di massimo contrasto tra lo spagnolo e Schumi ai tempi della grande lotta del 2006. I fedeli, invece, sono quelli che hanno sempre seguito Fernando ovunque sia andato in una carriera costellata da spostamenti, critiche, frizioni e decisioni che spesso ne hanno minato le possibilità di vittoria. Per i primi tutto quello che è successo dopo il 2006 è identificabile con il Karma, per i secondi con pura e semplice iella o incapacità dei team in cui ha militato di mettergli a disposizione una monoposto adatta a vincere.

Chi mi legge da tempo conosce la mia posizione nei riguardi di Fernando: pilota fortissimo ma spesso falloso nelle dichiarazioni, non tanto per il loro contenuto ma per i modi e i tempi di esposizione. Voglio però ripercorrere questi 10 anni partendo proprio dalla prima a Woking, quella che io chiamo maledetta: quella a partire dalla quale è cambiato tutto.

Il 2007 è infatti l’anno che ha segnato il crocevia della sua carriera. Dopo un quadriennio in crescendo in Renault, con le prime vittorie seguite dai due titoli mondiali, l’approdo in Mclaren e il contemporaneo addio di Michael ricordo che mi fecero temere, da tifoso contro che ne ammetteva comunque le doti, che avremmo assistito di lì in avanti ad un ciclo vincente in grigio dopo il biennio straordinario alla corte di Briatore. Insomma, c’erano tutti i presupposti affinchè Fernando facesse incetta di titoli e vittorie. Credo, tra l’altro, di non essere l’unico ad aver avuto tale convinzione durante l’inverno tra 2006 e 2007. Convinzione che durante la stagione si è sciolta con l’emergere straripante di Lewis Hamilton, il rookie di cui Ron Dennis era già innamorato da anni e che ha ribaltato completamente pronostici e prospettive. È proprio da qui che parte la deviazione inattesa nella carriera di Fernando, costretto a fuggire al termine di quella stagione in cui comunque aveva sfiorato il titolo per, chiamiamola così, incompatibilità di caratteri dopo sportellate, furbate reciproche, soste ai box prolungate e una fiducia totalmente scomparsa a vicenda tra lui e il team, tra l’altro devastato dallo scandalo della Spy Story. Altro elemento annoverato dagli haters nel libro nero con le iniziali FA.

Il ritorno ad Enstone nel 2008 e 2009, vista la mancanza di alternative importanti, è un passo indietro importante che inizia a macchiare il ruolino di marcia dei risultati di Fernando. Una specie di purgatorio biennale condizionato da risultati di squadra altalenanti e da un paio di vittorie nella stagione di rientro tra cui quella di Singapore che tutti ricordiamo, propiziata dal crashgate di Nelsinho Piquet e dal bocchettone del rifornimento della Ferrari di Felipe Massa, il cui fantasma vola ancora tra le strade della ricca cittadina asiatica.

La fine delle sofferenze pare essere caratterizzata da una data precisa, quella del 14 marzo 2010. Il giorno in cui Fernando vince il Gran Premio del Bahrain, prima prova del mondiale, a bordo della Ferrari F10. Il team è cambiato, l’atmosfera ostica nei confronti dello spagnolo dopo la grande lotta fa parte ormai del passato ed ecco arrivata l’occasione per rilanciare definitivamente la carriera in Formula 1. Non si sono fatti i conti però con un nemico forse inaspettato, la Red Bull che prima con Mark Webber e poi con Sebastian Vettel diventa l’incubo della stagione. Il come sia finita, poi, lo ricordiamo tutti e forse è meglio non raccontarlo nei dettagli per l’ennesima volta. La prima grande occasione sfuma in quel di Abu Dhabi, ma la sensazione è che il grande obiettivo con lo spagnolo in squadra sia finalmente qualcosa di tangibile e raggiungibile. Pare, insomma, solo una mera questione di tempo. Nel 2011 le cose invece peggiorano, la Red Bull domina e c’è spazio per una sola vittoria in un Gran Premio, quello di Gran Bretagna, condizionato da un cambio di regolamento una tantum che avvantaggia la Ferrari. Briciole.

Il 2012 è l’ultimo anno nel quale Fernando lotta per il titolo fino all’ultima gara. Anche questa volta i sogni di gloria sfumano, in Brasile tra le nuvole e la pioggia: l’aria inizia a diventare pesante. Questo mondiale tarda ad arrivare, ma la cosa peggiore è che non arriverà mai. Nel 2013 si torna a lottare per i piazzamenti con la Red Bull che continua a comandare indisturbata con Vettel; per Fernando arriva l’ultima vittoria con la Ferrari (e sua personale) in Spagna e le frizioni iniziano ad aumentare. A Monza, durante le qualifiche, parte un “Siete dei geni” in mondovisione che fa da preludio ad una serie di team radio storici ed imprime una prima grande crepa nel suo rapporto col Cavallino. Il 2014, con l’avvento dell’era ibrida, è ancora peggio. La F14-T è la peggior Ferrari costruita dal 1993: Fernando naviga (in tutti i sensi), Raikkonen di ritorno dalla Lotus è inesistente. Il grande sogno di vincere con la Ferrari si spegne e si riaccende l’amore sopito e tradito per (e dalla) la Mclaren, che in pompa magna sponsorizza il ritorno alla storica motorizzazione Honda per il 2015 facendo intendere, tra animazioni suggestive e frasi ad effetto, di voler asfaltare tutti. Fernando si lancia con entusiasmo nella nuova avventura sperando di poter finalmente essere competitivo e tornare a quel titolo che manca, ormai, da nove anni, non trascurando frasi evitabili nei confronti della Rossa (facendo storcere il naso a qualche ferrarista puro) e ammettendo di essere stanco di arrivare secondo e di voler tornare a vincere.

Quando mai. L’avventura inizia malissimo con il famoso colpo di vento di Barcellona. Ma non è ancora niente, perché Honda torna in Formula 1 con una Power Unit che fa ridere, altro che asfaltare. Si tratta del peggior ciclo motoristico che la Formula 1 abbia visto da parte di un team dal blasone universalmente conosciuto come la Mclaren. Non solo Fernando (e Jenson Button) non arrivano secondi, la maggior parte delle volte, se riescono a partire (non è scontato…) non arrivano proprio. I continui messaggi di attesa da parte della Honda e della Mclaren sono solo fumo negli occhi e aumentano le misure della figura magra. Nando, attendista nei primi mesi, inizia a mostrare i primi segni di nervosismo quando in Giappone, nel 2015, in casa Honda, si lancia in un “GP2 engine” che ha i contorni del terremoto ed è solo il primo di una serie di audio da vergogna per il suo motorista. La situazione non cambia neanche nel 2016, con Fernando che rischia l’osso del collo in Australia, né tantomeno in questi primi mesi del 2017. Insomma, i propositi di vittoria si perdono miseramente in risultati assolutamente non all’altezza delle aspettative, con i punti che si ottengono più per le prestazioni fantastiche dei piloti (e i ritiri in pista) che per quelle della monoposto.

La storia recente, quella dell’ultimo mese, è nota nei due mondi: il tentativo di sbancare Indianapolis nasce anche dalla voglia di rivincita dopo una seconda avventura Mclaren che non ha dato e difficilmente darà i risultati sperati. All’indignazione globale per l’ennesima sfiga (la rottura del motore) dalla quale si voleva allontanare, sono contrapposti i contro che, come anticipato, chiamano in causa il Karma anche in questa occasione.

Questi sono gli eventi: una breve (non troppo, effettivamente) revisione di quanto successo negli ultimi 10 anni. Ed ora vengono le considerazioni. 

Si cresce, inevitabilmente ed inesorabilmente, e credo sia giusto ad un certo punto deporre le armi del tifo e cercare di ragionare con obiettività. Se ripenso all’ultimo decennio e soprattutto alle ultime tre stagioni, quelle delle difficoltà più evidenti, non si può non ammettere di avere a che fare con un pilota che avrebbe meritato di più. Le due occasioni sfumate in Ferrari e la seconda avventura Mclaren hanno forse penalizzato eccessivamente le statistiche rispetto a quanto mostrato in pista. Vero è che soprattutto nel 2010 anche lo stesso Nando ha commesso errori evitabili, vero è anche che nessuno gli ha puntato la pistola alla tempia per tornare a Woking e che le minestre riscaldate spesso non funzionano. Ma questo non può alleggerire il peso delle prestazioni che Fernando ha sfornato in queste stagioni. Che poi, con un rapporto ormai logoro a Maranello, le alternative veramente vincenti per il 2015 non erano comunque molte. Anzi, non ce n’erano né in Mercedes, con Hamilton e Rosberg blindati, né in Red Bull con Kvyat promosso dalla Toro Rosso al fianco di Ricciardo. Insomma, in un panorama del genere Mclaren rappresentava la scommessa definitiva. Purtroppo, per colpa soprattutto di Honda, le cose non sono andate come sperato. 

Arriviamo alla Indy 500. Un’avventura che, prima di tutto, solo l’anno scorso non sarebbe stata possibile. Con Bernie Ecclestone a capo della Formula 1 un Fernando Alonso non avrebbe mai e poi mai saltato un appuntamento come quello di Montecarlo, e con Ron Dennis ancora in seno al team non ci sarebbe stata probabilmente alcuna opportunità di creare un team Mclaren in Indy.

Il cambio di management a Woking, l’uscita di Bernie e le prestazioni negative della MCL32 hanno permesso, alla fine, la realizzazione di questa avventura, che ha unito idealmente i due mondi che siamo abituati a seguire in contemporanea, la Formula 1 e la Indycar. Un evento che, grazie alla presenza di Fernando, ha permesso a molti di scoprire anche le corse sugli ovali, con la loro impostazione completamente diversa rispetto ai tracciati tradizionali e con i loro pericoli. Gli incidenti di Bourdais e Scott Dixon sono lì a testimoniare quando questa gara porti con sé un livello di pericolosità altissimo.

La scelta di Fernando di provarci è da rispettare e considerare per quello che è stata, una prova di coraggio non indifferente nella quale si è immerso al 110%. Con risultati, al di là del ritiro a 15 minuti dalla fine, eccezionali. Dopo pochi giorni di prove era già competitivo e il quinto posto in qualifica l’ha certificato. In gara, poi, una prestazione degna di nota. Sempre nel gruppo di testa, in più occasioni al comando, e nei primi dieci quando ormai si stava decidendo la corsa. Il motore rotto è un insulto alla pazienza e anche all’intelligenza. Uno schiaffo a lui, che pensava di aver scampato il pericolo di una rottura andando per una volta negli USA per poi trovarsene due, una in prova e una in gara. Uno schiaffo anche per noi, che abbiamo seguito sin dalle prime prove questa esperienza fantastica, che sono sicuro Fernando ritenterà in futuro. Futuro nel quale, sicuramente, ci sarà anche la 24 ore di Le Mans la quale a sua volta sarà oggetto di molta più attenzione, esattamente com’è stato per la 500 miglia. 

Perché, alla fine, Fernando l’attenzione la crea, l’ha sempre creata e la creerà sempre. Potrà piacere o non piacere, io stesso l’ho criticato e lo critico quando qualcosa non mi piace, ma non riconoscerne i meriti e la grandezza sarebbe solo un esercizio di ottusità, da tifosi che ancora hanno bisogno di tempo per meditare e capire una cosa secondo me importante: anche quelli che non apprezziamo ora faranno parte, un giorno, dei nostri ricordi.

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