Dal podio della redenzione si alza un grido: “alla faccia vostra”

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di Alessandro Secchi @alexsecchi83
28 Luglio 2019 - 20:56
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Dalla roulette tedesca di Hockenheim spunta un podio che sa di conferma, rivalsa e stupore rispettivamente per il vincitore, Max Verstappen, il secondo inaspettato, Sebastian Vettel, il terzo inimmaginabile, Daniil Kvyat.

Storie di tre personaggi che hanno incrociato i destini, che sono stati criticati, che hanno vissuto o vivono momenti particolari e che, grazie al caos dato dalla pioggia, hanno avuto finalmente l’occasione di rifarsi, ritrovarsi, mettere fuori la testa e dire “ci sono anch’io”.

È facile dimenticare, ora che vince e convince, le decine di insulti che Max Verstappen si è preso nei suoi primi anni di Formula 1. Da queste pagine uno degli input che ho sempre voluto offrire, la mia visione di questo sport, è stato quello della difesa e del rispetto nei confronti di tutti i piloti. Perché è facile parlare da dietro lo schermo, raccontare della nonna che andrebbe più forte o vantarsi di capacità superiori a quelle di chi corre a 300 all’ora. Sono cose che lascio ai disagiati che riempiono i social, il luogo supremo di spaccio dell’egocentrismo e dell’arroganza applicata a qualsiasi sport, forse il punto più basso dell’attuale mondo di internet. Verstappen è stato massacrato per ogni minimo errore, soprattutto quando la lotta era contro una Ferrari. Definito sopravvalutato solo per spirito di difesa, deriso ad ogni ruota fuori pista solo per tifo contro. Che fosse un potenziale fenomeno era chiaro ma non per chi non sa vedere oltre il proprio naso. Da oltre un anno a questa parte il 21enne Verstappen è il pilota forse più forte della griglia, capace di raccogliere sempre il massimo risultato a disposizione e con numeri che fanno impallidire per la sua precocità. Mi ricorda lo Schumacher del 1993, sempre a podio quando terminava sotto la bandiera a scacchi. Dopo le gare dell’Austria e di oggi sarebbe il caso di riconoscere in Max le potenzialità del campione e di sotterrare definitivamente una pagliaccesca ascia di guerra. 

Su Sebastian Vettel si sono sprecate pagine, enciclopedie e qualsiasi tipo di ipotesi. Molti oggi si aspettavano l’ennesimo errore e le premesse erano tutte dalla loro parte: la partenza dal fondo della griglia, la pioggia, i fantasmi di un anno fa, la necessità di far vedere che il caposquadra è ancora lui. Invece, tra un errore e l’altro dei vari Hamilton, Bottas, Leclerc, Hulkenberg, Gasly, Perez e via dicendo, forse l’unico a non commettere mezza incertezza durante il Gran Premio di Germania è stato – incredibilmente – lui. Nonostante il passo non fosse quello di Leclerc, che ha poi pagato l’esuberanza, il tedesco ha portato a casa una rimonta che nemmeno lui si aspettava, figuriamoci chi vive oltre l’abitacolo. Rivalsa? Vendetta? Non lo so: magari tra una settimana saremo qui a parlare di un altro errore, ma il problema è sempre lo stesso: definire la carriera di un pilota sulla base di una singola gara è lo sport preferito dai giustizialisti della domenica. Resto dell’idea che gli errori di Vettel e Leclerc siano figli di una situazione tecnica di inferiorità palese, condita da un’affidabilità che a volte zoppica per la voglia, chissà, di recuperare. Solitamente si dice che quando si spinge troppo si rischia di sbagliare; concetto valso spesso in passato ma che negli ultimi tempi non è sembrato essere d’attualità. Basterebbe vedere la gara delle Mercedes: nel momento in cui sono stati costretti a remare, Bottas e Hamilton hanno sbagliato come e quanto gli altri dimostrando, nella domenica no, la superiorità generale della loro monoposto. Di certo, da questa Germania, Vettel può trarre degli aspetti positivi più che nel risultato nel suo morale e nella sua autostima. Ed è questo quello che conta.

Il terzo posto di Daniil Kvyat è figlio degli eventi, del caos, delle gare come queste. Una sosta anticipata rispetto agli altri ed eccolo lì a lottare per il podio, a passare uno Stroll a sua volta agevolato dalla strategia (chiuderà ottimo quarto). In condizioni normali non sarebbe mai successo, questo possiamo darlo tutti per scontato. Eppure questo è un risultato che serve e che forse merita, per tutta una serie di motivi. Il suo incrocio di carriera con Verstappen è stato l’inizio della sua agonia ormai più di tre anni fa. Strappato dal sedile della Red Bull per far posto al nuovo fenomeno dopo un paio di errori, il russo è entrato in una spirale che rischiava di bruciarlo e che, di sicuro, qualche cicatrice l’ha lasciata. A 25 anni Kvyat ha vissuto tre esperienze diverse in Toro Rosso passando per la Red Bull e per un anno da development driver della Ferrari. Non ha mai rinunciato al sogno della Formula 1 quando, magari, sarebbe stato più semplice riciclarsi altrove e cercare fortuna in altre categorie come la Formula E, la Indycar o il WEC. La sua tenacia alla fine gli ha dato ragione ed è una lieta coincidenza vederlo a podio poche ore dopo essere diventato papà; sono quegli eventi che sembrano segnati dal destino e che, sicuramente, fanno bene al morale suo e del team, che ha piazzato anche un ottimo Albon in sesta posizione. 

Dal podio emerge anche un altro vincitore silenzioso, Honda. Due motori sul podio quando solo un anno fa, dopo che il fallimento con McLaren li aveva portati a ricominciare da zero con Toro Rosso, nessuno ci avrebbe mai scommesso. È un’altra dimostrazione del fatto che i momenti negativi, a volte, dovrebbero essere approfonditi un po’ di più rispetto alle critiche ed agli insulti superficiali. Capire i motivi di un momento negativo, studiarlo, comprenderlo è più appagante di ogni tipo di giudizio sommario e lapidario da post compulsivo. Dopo quattro stagioni di magra Honda può dire di avercela fatta. Insieme a Verstappen, Vettel e Kvyat, anche i giapponesi hanno di che rivalersi.

Bravi tutti.

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