Che “Krande Kasino” hai combinato, Niki…

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di Alessandro Secchi @alexsecchi83
21 Maggio 2019 - 14:00
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È difficile spiegare una sensazione provata poche volte in passato. Il come, di fronte al mare di post, immagini, pensieri, ricordi della vita di Niki Lauda che oggi inondano il web, ci sia un piccolo inaspettato nodo alla gola per un personaggio che hai visto ed osservato quando la sua carriera era ormai conclusa da qualche anno. 

Perché questo è per me, per evidenti questioni anagrafiche, Niki Lauda. La sua avventura è stata scritta, riscritta, portata su pellicola. Sarà celebrata a maggior ragione ora che è passato dall’altra parte del guard-rail, ricongiungendosi con James, Ayrton, Gilles, Roland, Elio, Riccardo e tutti quelli che abbiamo perso col tempo. Ma quello che io ho sempre visto con i miei occhi è stato l’uomo, non il pilota calcolatore come lo definiscono tutti. Ed è proprio per questo che mi stranisce essere così inaspettatamente dispiasciuto, oltre quello che avrei potuto immaginare.

Sempre con quell’immancabile cappellino rosso in testa. Dapprima richiamato come consulente della Ferrari da Montezemolo, quando il fondo del barile era ormai stato raschiato ad inizio anni ’90, per poi offrire il suo aiuto alla Jaguar all’inizio del nuovo millennio. Ve lo ricordate il test in cui disse che anche le scimmie potevano guidare una F1? Quanto scalpore fece… ma lui era così. Nelle interviste potevi aspettarti da un momento all’altro lo sprazzo, il colpo di genio, la parolaccia improvvisa. Spesso diceva “Kasino” in un modo che mi faceva sempre sorridere. Era il suo modo di fare, quello di chi era stato ostacolato dalla propria famiglia nella strada verso i propri sogni e non aveva più peli sulla lingua con nessuno. L’esperienza come commentatore per le emittenti tedesche e, infine, al fianco di Toto Wolff in Mercedes in veste di presidente non esecutivo. Seduti uno vicino all’altro a guardare i monitor durante il periodo più vincente della storia della Formula 1, di cui è stato parte integrante e fondamentale visto il peso nella scelta di Lewis Hamilton come cavallo di battaglia per il ritorno al successo.

Ecco, questo è il mio Niki Lauda. L’uomo, l’imprenditore, l’esperto dall’alto dei suoi tre mondiali. Non posso fingere altro, non ne sarei capace. Perché allora questo senso di vuoto? Ci ho pensato e la risposta è nel suo volto, l’immagine che più viene pubblicata, condivisa, ricordata. Il lato destro, la fronte, il contorno degli occhi disegnati dal fuoco che mai ha voluto nascondere, portati in giro per il paddock e in televisione con naturalezza, una prova fisica di quello che è stato il suo passato da pilota e Campione. Il biglietto da visita, forse il più importante, della Formula 1 degli anni ’70 infiltrato tra Halo, scocche di carbonio, sicurezza ai limiti della critica. Una sorta di trofeo al contrario, una macchia sulla pelle in mostra per sottolineare implicitamente, tra un’intervista e l’altra, che chi corre ora è figlio anche di quel giorno sul vecchio Ring, degli eroi che l’hanno tirato fuori da quella palla di fuoco. Figli di quella prima fuga dalla morte, di quei quaranta giorni su cui nessuno avrebbe messo un centesimo, né per la vita e figuriamoci per altri due mondiali. Figli anche del coraggio di aver paura.

Gli sono stato vicino una sola volta e, come spesso capita, non ho avuto il coraggio di fermarlo e stringergli la mano. Il solito complesso da “non lo voglio disturbare, chissà quanti ne vede…”. E poi pensavo che, dopo quello che aveva passato, fosse immortale. Ci sarebbe stata l’occasione, prima o poi, figuriamoci. Mi sbagliavo. E mi spiace tremendamente.

Saluta tutti, Niki. E non fare troppo Kasino con James, mi raccomando.

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