A 300 all’ora… in bici

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Tempo di lettura: 3 minuti
di Alessandro Secchi @alexsecchi83
13 Gennaio 2020 - 23:10
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È un sito di motori, è vero. Eppure l’uomo in questa foto un motore ce l’aveva eccome: nelle gambe.

Marco Pantani era, per me, l’altro Schumi. Le domeniche d’estate erano tutte Formula 1 e Giro o Tour. Prima il GP, poi le biciclette. Adoravo la bici. Era una compagna silenziosa per pomeriggi di relax all’aria aperta, quando la città era meno caotica, le ciclabili non c’erano eppure non rischiavi la vita, perché eri più rispettoso tu e lo erano anche gli altri.

Nei pomeriggi a casa da scuola l’estate era tutta Giro d’Italia e Tour de France. Dai tempi di Indurain e Gianni Bugno in poi, i primi di cui ho memoria, la seconda parte della giornata trascorreva attaccata alla TV a seguire le tappe. Poi, quando arrivava il weekend, c’era da sdoppiarsi perché la Formula 1 era già la priorità.

E poi c’era lui. Quel piccolo uomo dal cranio rasato che, quando si toglieva la bandana, diventava un gigante. Un motorino, una furia, un’altra cosa. Ricordo il 1998: il tripudio di gente al Castello Sforzesco a Milano sotto la pioggia, tutti ovviamente in bicicletta, ad attenderlo trionfatore in maglia rosa attaccati alle transenne per vederlo sfilare in prima fila. Ricordo i pomeriggi passati in casa invece che in spiaggia per vederlo trionfare al Tour. Un idolo, uno che aveva sofferto, si era fatto male, si era rialzato e, in questo, mi ricordava parzialmente l’altro, quello su quattro ruote. Quando partiva era inarrestabile. Un’occhiata, uno strappo e poi ancora, ancora ed ancora fino a sfinire chiunque.

5 giugno. Una data che associo solo ad un anno, il 1999. Un Giro già vinto, macché, stravinto. Una giornata che doveva passare quasi spensierata spazzata via da una macchia che resterà per sempre non in quel Giro, non nella carriera del Pirata, ma nello sport italiano. Quel giorno, a Madonna di Campiglio, è finito tutto. Pantani, il Giro, il mio interesse per il ciclismo. Pensandoci a posteriori, vent’anni dopo, forse non è giusto. Ho provato a seguire ancora negli anni successivi ma l’incantesimo si era ormai rotto definitivamente. Fino a diventare passato, una porta chiusa a quattro mandate, quel giorno di San Valentino del 2004. La fine di un’agonia ma non di una vergogna che prosegue ormai da sedici anni.

Forse non sapremo mai per certo cosa è successo per davvero in quel Residence. Ma ricorderemo sempre come Pantani, quello idolatrato e portato in trionfo da tutti, da quasi tutti sia stato poi lasciato a se stesso, alle sue disgrazie. Quella del Pantani sedotto e poi abbandonato è forse la più grande dimostazione dell’opportunismo pre social degli ultimi 20 anni. Gli si potrà sempre rimproverare di non avere avuto la forza necessaria per risollevarsi l’ennesima volta, dopo un’altra caduta. Sarebbe però ingiusto non ricordare come quel tonfo sia stato diverso, più subdolo, debilitante. Un tonfo al quale non ha saputo reagire perché trattasi non di una caduta in bici o un incidente contro un’auto, ma di una coltellata dal suo stesso sport; quello che aveva contribuito a rendere più grande in Italia e nel mondo. Insopportabile, anche per chi era ritornato sempre più forte di prima.

Oggi Marco avrebbe compiuto 50 anni. Compie 50 anni. Come tutti quelli che se ne sono andati ingiustamente si deve usare sempre il presente. Contro il tempo, contro chi ha voluto così, contro il naturale corso della vita. Rimane, rimarrà, sempre il mio Schumi in bici. Un angolo di ricordi maledettamente spezzati ma di emozioni che mai potranno sbiadire.

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